mercoledì 3 giugno 2009

Dai comunisti ai "pop brezneviani", ecco la ex-sinistra

L’unica cosa certa – oggi – ripercorrendo l’orgia di parole del tempo in cui tutti si chiedevano come sarebbe stata la nuova stagione che si annunciava, è che invece stava finendo una grande storia. Oggi si può dire senza dubbio che il salvataggio non ha avuto l’esito sperato, e la parola «sinistra» ha ceduto il passo a un aggettivo – «democratico» – che gli stessi protagonisti di quella Svolta, all’epoca, consideravano poco meno che una bestemmia. Il Partito democratico non è arrivato come un traguardo, ma come una resa, o un tentativo di lifting. Non ha prodotto la leadership di una nuova generazione, ma il ricongiungimento con un’altra storia di «post», senza più storia. L’unica differenza fra i post-comunisti alla Veltroni e i post-democristiani alla Franceschini è che i primi si vergognano del proprio passato, e gli altri no.
Questo singolare almanacco di paradossi e di idoli infranti, per i leader del centrosinistra, dovrebbe se non altro rappresentare il segnale che qualcosa di profondo non va: è diventato, invece, una delle altre grandi rimozioni del loro dibattito politico. Dopo quattordici anni di battaglie elettorali sempre e comunque drammatiche (fra le politiche del 1994 e quelle del 2008), è che qualunque postcomunista si sia candidato alla guida del Paese – da Achille Occhetto, a Massimo D’Alema, da Piero Fassino (sia pure in tandem) a Walter Veltroni – è stato sconfitto. Tre coincidenze, scriveva Agatha Christie, fanno un indizio. E in questo caso forse può aiutare il fatto che lo stesso sia accaduto a Francesco Rutelli. Nessuno aveva capito – in quel giorno di jacquerie – che insieme alla storia del comunismo si stava rottamando anche quella del socialismo italiano. E che anche questo ennesimo parricidio (dopo il proprio, anche quello del padre degli altri) avrebbe lasciato un vuoto incolmabile. Anche questo epilogo era già inscritto nella storia del 1989, nel dialogo tra sordi, incompiuto e impossibile, tra Bettino Craxi e Achille Occhetto.La cosa più difficile da spiegare è come sia potuto accadere che tutti e quattro i leader messi in campo dalla sinistra (o da quel che ha preso il suo posto) dopo il 1989, siano stati tutti sconfitti dalla stessa persona: un imprenditore catodico nato prima della Seconda guerra mondiale che di nome fa Silvio Berlusconi. Una delle prime barzellette che finirono nell’archivio del Kgb, quando l’ironia in Unione Sovietica divenne improvvisamente un efferato reato, fu quella che suonava così: «Un giudice si piega in due dal ridere. Un collega gli chiede cosa c’è di così buffo. “Ho appena sentito la storiella più divertente della mia vita”, gli risponde divertito il giudice.
“Raccontamela”, lo prega il collega. E il giudice: “Non posso! Ho appena condannato un tizio a cinque anni di lavori forzati per averlo fatto...”». Ecco, quando sento parlare molti dirigenti del Pd mi viene in mente quel geniale apologo. Il fondatore del Pds – Achille Occhetto – da molto tempo non fa più parte di quel partito, e tantomeno è entrato in quello nuovo che ha preso il suo posto, tra amarezza, rancori e polemiche. È un paradosso: ma loro non ne hanno mai parlato. Hanno derubricato e rimosso. Parlarne significherebbe prendere atto che lo hanno adulato prima e accoltellato poi, e questo non è carino. Altrettanto curiosamente, anche Romano Prodi, fondatore del partito che ha sostituito i Ds – il Pd – si è dimesso a sua volta dalla carica di presidente: e ovviamente anche lui tra amarezza, rancori, e polemiche. È incredibile: ma neanche di questo si è mai discusso, nel Pd. Farlo, avrebbe comportato prendere atto che fino al giorno prima della sua caduta Prodi era considerato un grande statista, e che un attimo dopo è stato degradato a un re Tentenna, debole e incapace. E anche questo, ovviamente, non è carino.
L’ultimo archiviato è stato Walter Veltroni. Era stato acclamato, persino dai suoi peggiori nemici, come un salvatore della patria. Si è dimesso una mattina, con una conferenza stampa tenuta nella cornice suggestiva del Tempio di Adriano, e da quel giorno su di lui non si è più ragionato. Farlo avrebbe voluto dire che è stato considerato un sindaco geniale, e subito dopo un leader inetto e vocato alla fuga. E quindi nemmeno questo era carino. Meglio non pagare mai il conto, e contrarre nuovi “debiti”. Dopo aver sentito un discorso bello ed elusivo, quello dell’addio di Veltroni, ero rimasto a contemplare le lacrime dei suoi fedelissimi e dei suoi Bruto, tutti in prima fila e assolutamente indistinguibili, e ho temuto che presto anche il suo erede potrà subire un trattamento analogo: tumulazione e rimozione, e un conseguente nuovo debito di analisi, acceso a spese della verità.
Questo avvicendarsi di incoronazioni e giubilazioni io lo chiamo “pop-breznevismo”. Perché nella mancanza di una dialettica democratica, esplicita, ancora oggi i postcomunisti e i loro eredi vivono con fatica l’idea che in un partito ci possano essere maggioranze e opposizioni: scomparso il comunismo, un unanimismo di sapore quasi brezneviano (molto più forte e ipocrita di quello che si respirava nell’ultimo Pci) è diventato il costume di un intero gruppo dirigente. Scomparso il comunismo, i suoi epigoni – proprio come l’homo sovieticus perfettamente immortalato da Berlinguer – non dicono mai la verità, e producono caramelle che rimangono attaccate all’incarto. Dicono che non sono più comunisti, e addirittura che non lo sono mai stati: eppure, nella loro vita interna, non sono mai riusciti a propiziare una sfida fra alternative chiare, un duello fra programmi e leader come avviene in tutti i partiti progressisti del mondo. Non c’è stato congresso, dal 1991 a oggi, che si sia aperto senza che se ne conoscesse già l’esito. Il rito del centralismo antidemocratico ha lasciato il posto a quello delle acclamazioni. Si sono spartiti il potere come i Borgia: fra complotti e pugnalate, sempre negando il conflitto e sempre sperando di poter concordare con il più odiato avversario politico cosa avrebbero dovuto fare vincitori e vinti. Tra un colpo di stiletto e uno scappellotto paternalista. Sempre cooptando il nemico con le regole della prossimità familistica, mai sfidando l’avversario con quelle della democrazia.
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