giovedì 20 agosto 2009

Afghanistan - elezioni

Siamo a Kabul per salvare le nostre città
Renato Farina
Pubblicato il giorno: 20/08/09
L'Afghanistan non è solo l'Afghanistan. Le elezioni che ci sono lì proprio quest'oggi, gli attentati che cercano di impedirle, non accadono solo in Afghanistan. Se non capiamo questo, è inutile stare a parlarne, e non serve a niente occuparsene. Se noi stessimo rischiando la vita dei nostri soldati per consentire a Karzai di fare il tirannello asiatico parademocratico e pasthun, saremmo dei cretini al cubo, anzi dei delinquenti che fanno ammazzare i propri figli e fratelli per i disegni oscuri degli americani, da Bush a Obama. In realtà l'Afghanistan è sempre di più, in stretta unione di fatto con buona parte del Pakistan, il regno di Talibanistan. E - se vogliamo essere spiritosi un po' fuori luogo - Kabul è, per Osama e Al Qaeda, Binladonia come Topolinia per Topolino anche quando è in trasferta con Pippo.
Per questo la partita che si gioca nelle elezioni di queste ore sono un fatto tremendamente serio. Non riguardano appena i 17 milioni di potenziali elettori afghani, ma l'intero mondo. Se fossero una barzelletta senza sugo democratico, perché i talebani e i loro sodali di Al Qaeda spunterebbero con tanta forza contro questo voto? Perché comunque lì il popolo si esprime, e se va alle urne in una percentuale decente (diciamo il 40 per cento) vorrebbe dire che neanche le minacce e le esecuzioni tramite autobomba non distolgono la gente dalla volontà di sottrarsi ai padroni in nome di Allah.
I nostri alpini e la nostra folgore non sta in Afghanistan come i bersaglieri di Cadorna in Crimea per ordine di Cavour, un prezzo in uomini (più di 2000) e mezzi per far parte del circolo dei potenti. Oggi siamo ancora minacciati direttamente da questa organizzazione terroristico-religiosa globale a nome Al Qaeda. Essa ha il suo santuario in quelle regioni. Da quando non ha più uno Stato a disposizione non è riuscita a pianificare o almeno a realizzare un attentato paragonabile a quello dell'11 settembre. In Afghanistan la presenza degli eserciti occidentali è utile per presidiare territori e tenere occupate le milizie fondamentaliste, ed impedire anche che il Pakistan, dotato di circa 50 bombe atomiche, finisca sotto il controllo di Bin Laden. Già adesso nell'esercito e nei servizi segreti di Islamabad lo sceicco yemenita gode di considerazione, e quando Obama da Washington fa sapere di voler dialogare con i talebani moderati, in realtà cerca di indurre a patti i generali pakistani fondamentalisti e propensi a considerare il mullah Omar come un possibile Alleato, come lo fu fino a una decina di anni fa.
Mandando i soldati lì in realtà, un po' egoisticamente, difendiamo noi stessi e il nostro futuro. Ma è un egoismo sano e responsabile, perché oltre a salvare noi stessi preserva buona parte del mondo dalla catastrofe di un Regno Talebano, dove le vittime sarebbero innanzitutto le donne e i bambini. Le donne si sa perché: impossibilitate a studiare, a uscire di casa, vere schiave dei mariti-padroni. I bambini perché indottrinati, condizionati a essere plastilina modellata dai capiguerriglia.
Ovvio: la democrazia non si esporta. Esige un cambio di cultura. Ma che i capi si debbano eleggere non è un dato della democrazia occidentale, lo fanno anche nelle tribù africane, e la volontà di un uomo lo capiscono da ogni parte del mondo che non è fatta per essere conculcata. Per questo le elezioni sono importanti. Stabiliscono un metodo. Consentono un minimo di libertà nel progettare il futuro.
Si dirà: Karzai è lo stesso figuro che consente alle famiglie sciite di trattare le donne come tranquillamente stuprabili purché all'interno della casa? Sì, è lui. Non può piacere un tipo così. E bisognerà far valere il nostro peso morale e non solo morale con lui, anche riguardo alla libertà di religione e di coscienza che i cristiani lì non hanno. Ma qui non c'è da difendere Karzai, e le sue convinzioni infami magari dettate dal calcolo elettorale. Siamo da quelle parti per impedire la proliferazione della peste talebana.
Vincerà Karzai? Pare abbastanza scontato. Nonostante gli attentati mirino a impedire che si rechino ai seggi i votanti del Sud, quelli di etnia pasthun, in passato compattamente pro Karzai (al potere da cinque anni).
Il Ministero degli esteri aveva chiesto di evitare la diffusione di notizie riguardanti violenze tra le 6 e le 20 (ora locale) della giornata elettorale, in corrispondenza dell'apertura dei seggi, per «garantire l'ampia partecipazione» degli elettori al voto. Per fortuna gli americani hanno spiegato ai loro "protetti" che la democrazia non coincide con l'oscurantismo. Pur essendo la situazione seria e la paura palpabile: grave il fatto che per la prima volta le milizie talebane non si siano infatti limitate a chiedere il boicottaggio del voto ma abbiano minacciato di attaccare i seggi (secondo la Nato solo l'1% delle sedi elettorali rischierebbe di diventare l'obbiettivo di un attentato: ma questo dato basterebbe in tutto il mondo a stare a casa…).
Intanto, da Bruxelles la Commissione europea ha denunciato il rischio di «brogli elettorali».
Che comunque le elezioni mobilitino insospettabili energie, lo si capisce anche dal numero e dalla qualità dei candidati alla presidenza. Sono 41!
Di Hanid Karzai abbiamo detto, è pasthun, è un capo pragmatico, disponibile a compromessi anche coi talebani.
Il più pericoloso rivale di Karzai è l'oftalmologo Abdullah Abdullah, già ministro degli esteri, molto stimato quand'era in carica da Gianfranco Fini. L'ultimo sondaggio gli assegna il 26% dei voti, contro il 44% per Karzai. Era il braccio destro e consigliere politico del comandante Ahmad Shah Massud, impegnato contro i sovietici. Io tifo per lui, ma è difficile.
Con possibilità zero ma con molto coraggio (sono morte, lo sanno, e insistono) ci sono due donne candidate. Sono Frozan Fana e Shahla Ata. Lo slogan di Fana (40 anni) è: "pace e sicurezza, libertà di stampa e difesa della sovranità nazionale". È vedova di un ministro assassinato nel 2002. Ata ha 42 anni, che non pensa neppure lontanamente all'eventualità di indossare burqa. Allegra ed estroversa, si trucca gli occhi e si pittura le unghie. Che qui è un fatto politico.

La Centrale nucleare di Montalto di Castro

monumento simbolo della sconfitta della politica energetica potrebbe essere riattivato
La centrale (fallita) di Montalto è costata 250 euro a ogni italiano
Spesi 7 mila- miliardi di lire. E il nuovo impianto lavora 3.000 ore sulle 8.600 previste
La centrale nucleare di Montalto di Castro (Olycom)
ROMA — Sprezzanti del ridicolo l'hanno pomposamente battezzata: «Centrale Alessandro Volta». Pensate! Dare il nome dell'inventore della pila, praticamente il padre dell'elettricità, a una centrale che sta quasi sempre spenta. Insomma, una specie di pila esausta. Benvenuti a Montalto di Castro: monumento gigantesco al fallimento della politica energetica italiana costruita sulle ceneri del nucleare, inutilmente costato almeno 250 euro a ogni italiano, lattanti e vegliardi compresi. E come sempre accade in Italia le responsabilità di un simile disastro si dissolvono in una nebbia impalpabile, dove tutti sono un po' colpevoli, quindi nessuno lo è. I politici della prima Repubblica, quelli della seconda, l'Enel, i petrolieri. Perfino gli ambientalisti che si battevano contro l'energia atomica. La centrale di Montalto di Castro è stata anzi la loro più grande sconfitta.
A metà degli anni 80 erano agguerritissimi. Qualche anno prima c'era stato l'incidente di Three Mile Island che aveva dato spunto al famoso film Sindrome cinese e il movimento antinucleare si era diffuso in tutta Europa. Anche se non aveva molta udienza presso i governi. Per gli oppositori dell'atomo, in Italia, non andava molto meglio. Finché, nella primavera del 1986 a Chernobyl, in Ucraina, si verificò la catastrofe nucleare più grave della storia. E gli eventi precipitarono. Il governo del segretario socialista Bettino Craxi cavalcò immediatamente l'onda antinucleare. Ben presto furono superate anche le resistenze all'interno della Democrazia cristiana e dello stesso Partito comunista. E il referendum del 1987 passò con un consenso mai registrato prima. Di colpo, in Italia, i nuclearisti erano scomparsi. Era novembre, al governo Craxi era subentrato quello di Giovanni Goria: tutto avvenne con una rapidità impressionante, considerando i tempi geologici delle decisioni italiane. Con un paradosso, che gestire la frase di transizione toccò a un ministro, tra gli altri, Adolfo Battaglia, esponente dell'unico partito, quello repubblicano, che aveva sostenuto fino all'ultimo, contro tutto e tutti, la scelta nucleare. Per prima cosa la chiusura delle centrali in attività. I quesiti referendari non avrebbero in teoria obbligato l'Enel a fermare i reattori. Ma il Psi e la Dc, con l'appoggio del Pci, interpretarono così la volontà politica degli elettori. E fecero spegnere gli interruttori. E i lavori alla centrale di Montalto di Castro, quasi completata, vennero interrotti. A quel punto cominciò una danza a suon di quattrini. L'Enel e le imprese fornitrici rivendicarono innanzitutto i danni. E pure il pagamento dei pezzi ordinati e non consegnati, come appunto il reattore di Montalto di Castro. Poi la società elettrica, allora guidata da Franco Viezzoli, fece presente che si rischiava il blackout. Bisognava provvedere e il Parlamento, nel quale erano entrati anche gli alfieri del movimento antinucleare, come Gianni Mattioli, non alzò un dito. Non lo alzò quando le importazioni di elettricità prodotta con il nucleare in Francia esplosero. Ma non le alzò neppure quando si decise di costruire, accanto alla centrale nucleare di Montalto di Castro, già costata 7 mila miliardi di lire e che non fu smantellata perché si sarebbe speso troppo (sic!), un secondo impianto da ben 3.200 Megawatt, a policombustibile. Grande quattro volte di più e con una specie di sberleffo agli ambientalisti costituito da una orrenda ciminiera alta 150 metri che si può ammirare da decine di chilometri. Altri 7 mila miliardi di lire, per una centrale nata già vecchia (non era a ciclo combinato, come quelle che venivano costruite allora in tutto il mondo) e con costi di esercizio insostenibili. Tanto insostenibili che oggi una delle centrali più grandi d'Europa resta accesa soltanto 2 o 3.000 ore l'anno, sulle teoriche 8.600 ore, perché l'energia prodotta lì è troppo cara. Intanto i privati non se ne stavano con le mani in mano.
Molti italiani che avevano votato sì al referendum antinucleare erano stati convinti dalla promessa che si sarebbe abbandonata la strada dell'atomo per quella delle energie rinnovabili. Il governo approvò una delibera, la famosa delibera del Cip 6 che concedeva incentivi profumati ai produttori di elettricità pulita. Soltanto che ci infilarono all'ultimo momento, dopo «energie rinnovabili», le paroline «e assimilate». Spalancando un'autostrada agli industriali siderurgici ma anche ai petrolieri che intascarono migliaia di miliardi di contributi pubblici, bruciando i «Tar»: così si chiamano gli scarti della lavorazione del petrolio. Montedison, Falck, Riva, Moratti, fecero soldi a palate.
E le famose energie rinnovabili? Di quelle per vent'anni neanche l'ombra. Nel 2007 l'Italia produceva con il solare un cinquantesimo dell'elettricità prodotta in Germania attraverso il fotovoltaico. In compenso siamo diventati il Paese con il record mondiale del consumo degli inquinanti idrocarburi per la produzione di energia elettrica. Per non parlare dei costi. Quanti italiani dopo aver già sborsato 8 miliardi di euro per pagare all'Enel e ai suoi fornitori i danni dell'uscita dal nucleare, sanno che ancora pagano sulla bolletta elettrica un sovraprezzo destinato a una società pubblica, la Sogin, per lo smaltimento delle vecchie scorie? E che lo pagheranno ancora per una quindicina d'anni nella migliore delle ipotesi? Se la fallimentare operazione di Montalto di Castro è costata 250 euro a ogni cittadino italiano, 15 miliardi e mezzo di euro in tutto compresi i maggiori costi del petrolio rispetto a quelli dell'uranio, l'uscita dal nucleare è stata ancora più cara: 424 euro pro capite, cioè 25,5 miliardi di euro. E con quale risultato? Che siamo il Paese europeo più dipendente dal petrolio e dove l'energia costa più cara, che siamo il fanalino di coda delle energie rinnovabili, che abbiamo il primato delle importazioni e che ora abbiamo deciso di tornare al nucleare, per volontà di alcuni di quei politici che venti anni fa avevano persuaso gli italiani a uscirne. E Montalto? Tranquilli, ci sono buone probabilità che l'atomo torni anche lì. Secondo il presidente di Edf, il partner nucleare dell'Enel, Pierre Gaddonneix, quello è un posto ideale per una centrale nucleare. Come la chiameranno stavolta?
Sergio Rizzo13 luglio 2009
sul CORSERVA

martedì 11 agosto 2009

Chi di spada ferisce......

Il boomerang morale colpì anche il vecchio Pci
Giancarlo Lehner
Pubblicato il giorno: 16/07/09
Intervento
Caro Vittorio, induce a pena la sparatoria sulla Croce rossa, pardon, sulle perversioni sessuali del Pd. Fra l'altro, c'è il rischio di offrire a qualche malvissuto il destro di uscirsene con panegirici nostalgici a favore del defunto Pci, magari dipinto come partito serio, rigoroso, perbene e innervato di eticità. Per non dire della vecchia sinistra Dc, sulla cui moralità basterebbe chiedere ai patrioti sopravvissuti di Budapest o agli operai di Danzica, allibiti davanti ai nostri rossocrociati, prima, vocati a fraternizzare ed a trafficare coi carnefici; poi, a riempire le valigie di calze di nylon per comprare sotto costo sesso centro-est europeo.Il Pd, nel suo piccolo, non ha inventato niente e non possiede copyright alcuno, sia riguardo all'alcova usata come clava politica, sia rispetto ai vizi privati celati sotto pubbliche virtù. In tali arti, anzi, il Pci, ad esempio, fu maestro. Non mi riferisco ai crimini contro l'umanità, a quelli politici o finanziari e neppure alla colossale, organica e dialettica evasione fiscale, talora ai danni di più Stati, Urss ed Italia in primis. No, intendo proprio il sesso in tutte le sue varianti, a cominciare dal magistrale e cinico impiego del pettegolezzo, disciplina che è giunta sino ad oggi, per testare la resistenza dell'esecutivo Berlusconi.Noi, egregio Feltri, nel 1953-1954, stazionavamo innocenti dentro il grembiulino blu, ma erano i tempi in cui l'eros si apprendeva di straforo, perciò incuriosì anche noi scolaretti la morbosità pruriginosa dell'affare Wilma Montesi.I giornali di destra e di sinistra erano, infatti, riusciti a trasformare il malore, purtroppo con esito infausto, della povera Wilma, in una storiaccia di potenti, vip e ragazzine, con tanto di festini, orge e cocaina. Neanche il fatto che Wilma, dopo l'autopsia, risultasse vergine fece calare la micidiale campagna mediatica.Il Pci, come si legge nel saggio di Victor Ciuffa sulla dolce vita romana, mirò diritto al cuore della Dc, in vista delle elezioni del 1953 e per evitare lo spauracchio della cosiddetta «legge truffa». Scese in campo addirittura Togliatti, conclamato concubino e adultero, il quale pontificò, esortando alla castità, alla purezza e alla «lotta contro l'omertà e la corruzione». Ipocrita e stalinista, per essere libero di amare la Iotti, teneva prigionieri in Urss la moglie Rita e il figlio debole di mente, Aldo, e, intanto, batteva sulla questione morale, affinché «il regime clericale possa giungere ad un crollo».Fu proprio la stampa del Pci ad accusare Piero Piccioni, musicista jazz, figlio di Attilio, allora vicepresidente del Consiglio, ministro degli esteri, massimo dirigente Dc, in pista di lancio per la successione a De Gasperi.Quando il figlio Piero fu arrestato con l'accusa di omicidio colposo e di uso di stupefacenti, il padre Attilio fu costretto a dimettersi da tutte le cariche. Tuttavia, i comunisti non sanno fare i coperchi. Alcuni giornalisti di «Momento Sera», in quella medesima stagione di veleni, erano alle prese con la morte sospetta di «Pupa », una teatina di 22 anni. Da bravi segugi arrivano, infine, alla signora Margherita Fantini, tenutaria d'una casa d'appuntamenti in via Filippo Corridoni 15, Roma, quartiere Prati.Casa Fantini è il porto franco di tutte le perversioni sessuali. Lì, fra gli altri, vanno i mariti che amano rimirare la propria donna, mentre fa sesso con altri maschi o altre donne. Tra i perversi abituali c'è Giuseppe Sotgiu, presidente comunista della Giunta provinciale di Roma, docente universitario, principe del foro, distintosi come Savonarola rosso nel montare il caso Montesi contro la Dc. Togliatti in persona - coincidenza davvero beffarda - l'aveva voluto come presidente della Commissione per la riabilitazione dei minorenni.Ed ora proprio l'avvocato moralista viene beccato come guardone compiaciuto degli amplessi della propria moglie, con vari ragazzi, fra cui uno, forse, minorenne. Chi di alcova altrui ferisce, di sporcizia morale perisce.

L'Europa ha condannato Prodi

Sorpresa: anche l'Europa ha condannato Prodi
Enrico Paoli
Pubblicato il giorno: 30/07/09
Per aver diffuso informazioni falseI fatti risalgono al biennio 2002-2003. La sentenza della Corte di Giustizia Europea, che condanna Romano Prodi, all'epoca dei fatti presidente della Commissione Ue, porta la data dell'8 luglio del 2008.Poco più di un anno fa. Eppure di quella sentenza, nella quale il nome di Romano Prodi non viene mai fatto, ma si cita esplicitamente il «presidente della Commissione», non ne ha mai parlato nessuno. Come se fosse roba di un'altra epoca.la condannaRomano Prodi viene condannato dalla terza sezione del Tribunale della Corte di Giustizia europea per aver fornito al Parlamento Europeo notizie false e non documentate; aver emesso comunicati che mettevano in dubbio l'onorabilità di alti dirigenti che non si erano sottomessi alle sue imposizioni (tanto che vengono rimossi e, non potendoli licenziare, lasciati senza incarico sino alla pensione) e per aver tentato di ostacolare la giustizia. I fatti che hanno portato alla condanna si riferiscono a una contorta vicenda relativa all'Eurostat (ovvero l'ufficio Statistico delle Comunità Europea, travolto da un scandalo nel 2004 che ha visto il direttore generale Michel Vanden Abeele -sostituito poi dall'attuale Günther Hanreich - dichiarare che il governo greco aveva falsificato le statistiche economiche e finanziarie in modo che la Grecia potesse entrare nell'euro-zona). Una polemica innescata dalla lettera di una funzionaria che si riteneva discriminata. L'inchiesta viene aperta dai giudici europei e condotta materialmente dall'Olaf, l'organismo di controllo interno alla Commissione, per capire se tali irregolarità fossero state effettuate su iniziativa di dirigenti o addirittura dallo stesso responsabile della Commissione, Prodi. Un dettaglio, questo, sul quale i giudici della Ue sono arrivati ad una conclusione sufficientemente chiara e lineare.La sentenza«Ugualmente, per quanto concerne il discorso del Presidente della Commissione», si legge a pagina 50 della sentenza, capitolo 404, «non potrà essere negato che con le sue dichiarazioni davanti al Parlamento ha attentato alla reputazione e all'onore dei richiedenti e che, da allora, esiste un legame di casualità diretto fra queste dichiarazioni e questo pregiudizio». Insomma, con le sue parole il presidente della Commissione ha creato un danno a coloro che hanno dato avvio al procedimento. Non solo. La sentenza parla anche di «rimbalzo delle responsabilità», nonché di «fughe di notizie», depistate verso giornali amici. Per capire meglio quest'ultimo capitolo d'accusa occorre rifarsi al paragrafo della sentenza che analizza l'intervento del presidente della Commissione del 25 settembre 2003. Pagina 41 della sentenza, capitolo 326. «Certamente, in questo discorso, il presidente della Commissione sottolinea la mancanza di trasparenza e comunicazione fra il direttore generale di Eurostat e il membro della commissione che esercita la tutela», si legge nel dispositivo, «perciò, lascia intendere che l'implicazione nelle irregolarità del direttore generale di Eurostat, come quella di un altro alto funzionario, è indubbia». Insomma, Prodi prova a scaricare su altri le proprie responsabilità. «In queste circostanze, c'è modo di considerare che, con questo discorso, il presidente della Commissione non ha pienamente rispettato i diritti fondamentali dei richiedenti e, particolarmente, il principio della presunzione d'innocenza», si legge a pagina 42 della sentenza, capitolo 331. Da qui le ragioni della condanna: « Un tale comportamento costituisce una violazione sufficientemente caratterizzata e ben precisa di questo principio (cioè di presunzione d'innocenza ndr)». Alla fine del procedimento la Commissione guidata da Prodi è stata condannata a versare ai due funzionari 56 mila euro e al pagamento delle spese processuali. Il testo integrale della sentenza è pubblico e si può ottenere dal cancelliere della corte Europea.

sabato 8 agosto 2009

Piccola storia stalinista

Igor Argamakow, Morte da cani. Piccola storia stalinista, il Mulino, Bologna 2000, ISBN-13: 9788815077707, pp. 160, € 10,33
Argamakov Argamante (a cura di), Archivio KGB di Vilnius (Ltsr). Dossier N° 51879, con una introduzione di Alberto Gasparini, Isig. Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia, Gorizia 2003
La memoria è il punto più debole dei russi, soprattutto la memoria del male» (1). Il «rifiuto» di ricordare, specialmente il male, che Aleksandr Solženicyn attribuisce al popolo russo quasi come una caratteristica psicologica propria, ha avuto qualche eccezione.
Anzitutto, lo stesso Solženicyn, che, con Arcipelago Gulag, ha voluto preservare dall’oblio – pur avendo potuto «vedere […] soltanto da una feritoia» (2) –, se non il nome, almeno la sofferenza – e la causa di essa –, dei milioni e milioni – sessantasei, secondo il professore di statistica Ivan Kurganov (3) – di persone rinchiuse e sterminate nei campi di concentramento del sistema comunista sovietico. Nei quali la fame, il freddo, le vessazioni, il lavoro forzato in condizioni estreme e le malattie svolgevano il ruolo che nei Lager nazionalsocialisti era affidato al gas. E con Solženicyn hanno vinto la fobia per il ricordo del male anche uomini come Varlam Tichonovič Šalamov (1907-1982), con I racconti di Kolyma (4), nei quali, secondo lo stesso Solženicyn, «il lettore avvertirà più esattamente lo spirito spietato dell’Arcipelago e il limite della disperazione umana» (5), e coloro che oggi, nella Federazione Russa, con l’associazione Memorial (6), si sforzano di conservare la memoria delle vittime del comunismo nell’impero sovietico.

Ma la «dimenticanza» delle vittime del comunismo non è stata – e non è – conseguenza soltanto di una – reale o pretesa che sia – connotazione psicologica del popolo russo. Essa ha avuto una dimensione così universale da poter essere considerata un fenomeno ben più complesso, che ha molte cause. Non ultime tra le quali, la percezione da parte di neo- e vetero-illuministi e progressisti che il comunismo faccia parte dell’«album di famiglia», e l’egemonia culturale, e sui mezzi di diffusione e divulgazione del pensiero e delle immagini, conquistata gramscianamente dai comunisti, dove più, dove meno, in tutto il mondo. Lo studioso francese Alain Besançon ha parlato di «amnesia» – che diventa «amnistia»– per le vittime e per i crimini del comunismo, e di «ipermnesia» per le vittime e i crimini del nazionalsocialismo (7). Si può dire che, se a tutti è stata riservata una «morte da cani», gli uni sono stati anche dimenticati come cani, gli altri, almeno, sono stati e sono ricordati come uomini.
* * *
E proprio Morte da cani (8) s’intitola l’opera d’esordio di un altro russo, che non ha paura di ricordare e di far ricordare, Igor Argamante (italianizzazione dell’originario Argamakow). Nato a Vilnius – allora non capitale della Lituania, ma città polacca con il nome Wilno –, poi naturalizzato italiano e in Italia da sessant’anni, già dirigente industriale della Olivetti e console onorario della Repubblica del Sudafrica a Trieste, Argamante, finalmente in pensione, si è potuto dedicare nella sua piccola patria d’elezione triestina agli studi storici.
E tra le tante storie delle vittime del Novecento, il «secolo del male» di Besançon, egli ha scelto quella di un «uomo qualunque», quella di suo padre, Aleksej Aleksandrovič Argamakow. Un uomo come tanti, che viveva a Wilno. Un uomo che, giŕ sfuggito al tritacarne del golpe dell’Ottobre e della Guerra fra eserciti «bianchi» e «rossi» che ne era seguita, dai fragili confini della Polonia si sentiva protetto. Almeno finché non aveva capito che, con lo scellerato patto «rosso-bruno», più noto come «Molotov-Ribbentrop», si stava organizzando, per lui, come per altre centinaia di migliaia di piccoli e grandi uomini (ma quale uomo è davvero «piccolo»?), fra i quali le vittime di Katyn del 1940, un viaggio.
Un viaggio «in luogo d’ogni luce muto» (9), in quell’inferno storico che era il comunismo realizzato, e dell’inferno nel cerchio più profondo: il GULag, precisamente il KARlag, in Kazachstan. Un viaggio senza ritorno. La sua colpa? Esistere, appartenendo a una classe – nel suo caso la piccola nobiltà – che lo «Stato giardiniere», come lo chiama Zygmunt Bauman (10), rubrica fra le erbacce da estirpare per bonificare la società e trasformarla nel giardino «edenico» prospettato dall’utopia socialcomunista. Gli ultimi brandelli della vita di Aleksej Aleksandrovič Argamakow, finché letteralmente sparisce nell’abisso del GULag, vengono riassunti in una pratica, la n. 51879, istruita dall’Nkvd e conservata «permanentemente» negli archivi del Kgb lituano, «aperti» e messi a disposizione dei ricercatori quando la Lituania ha conquistato la sua indipendenza. Così, Igor Argamante ha potuto ottenere una copia del dossier.
Da quelle aride e demoniache carte, e dai ricordi personali e di famiglia, ricava Morte da cani.Storia amara e triste di un calvario, una «cronaca familiare» temperata dalla tenerezza con la quale l’autore osserva il suo personaggio, che sottrae per sempre all’oblio per farne un esempio incarnato dell’esito anti-umano dell’utopia comunista. Argamante segue con ovvio e trasparente affetto suo padre, e ne vien fuori un’opera che, per il nitore dello stile, la vivacità del racconto, il sarcasmo e la pietà che ne intridono le pagine, l’inesorabile giudizio di condanna del comunismo e dei suoi volenterosi e meschini carnefici, merita d’essere divorata d’un fiato.
* * *
Ultimamente, Argamante è riuscito a pubblicare la traduzione integrale, da lui curata e commentata, del dossier, con il titolo Archivio KGB di Vilnius (Ltsr). Dossier N° 51879, edito dall’Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia () alla fine del 2003 (11).
Egli così mette a disposizione dei lettori e degli studiosi un documento unico: per la prima volta tutti gli atti di una… Come chiamarla? «Istruttoria»? Ma manca il giudice. «Indagine preliminare»? Ma oltre al giudice, manca pure il pubblico ministero. Meglio allora chiamarla «inchiesta di polizia». Attraverso di essa si perveniva alla consegna del perseguito (meglio «perseguitato»?) o al tribunale militare – che avrebbe applicato la misura suprema di «difesa sociale», qualche grammo di piombo sparato nella nuca –, ovvero all’Oso. La sigla è l’acronimo di Osoboje SOveščanie, «Consiglio Speciale» presso la polizia politica (allora l’Nkvd), composto da un membro di questa, da uno della procura e da uno del comitato centrale del partito comunista. Si trattava di un organo che con un tratto di penna (letteralmente) consegnava il malcapitato al sistema di rieducazione sovietico, all’«arcipelago GULag» (12), con provvedimento amministrativo, quindi non motivato. La durata della rieducazione mediante il lavoro forzato di Argamakow fu fissata in otto anni, comunque prorogabili, se il soggetto si fosse mostrato tardo a comprendere la lezione, fino a venticinque, sempre con un tratto di penna e senza dover motivare: la stessa misura che, solo quattro anni dopo, fu riservata a Solženicyn.
* * *
Il volume, dopo una premessa del curatore – lo stesso Argamante – (p. 5), si apre con una introduzione del professor Alberto Gasparini, dell’Università di Trieste e direttore dell’Isig, intitolata puntualmente Dossier n. 51879. Dove si descrivono i modi di mantenere la rivoluzione (pp. 7-16).
In essa, con sintesi felice, egli coglie il carattere di «utopia violenta» della Rivoluzione. L’espressione rimanda ai «coercitive utopians»,gli «utopisti coercitivi», di Rael Jean Isaac e Erich Isaac (13), che «[…] sono sempre stati poco inclini ad accettare la natura umana, ecco perché i loro sogni non si sono mai potuti realizzare senza violenza […]. L’errore fondamentale consiste nella credenza antiscientifica e disumana che l’uomo sia malleabile all’ infinito e che, alle “giuste” condizioni sociali, sia “perfettibile”, ovvero possa essere cambiato nel senso che piace a loro. Di conseguenza essi non ammettono che le istituzioni base che la nostra civiltà ha sviluppato nel corso dei millenni riflettano i caratteri essenziali della natura umana. La proprietà privata, la famiglia, la religione e la nazione, tutte insieme e separatamente, sono state sottoposte a continui attacchi negli ultimi due secoli, con risultati inevitabilmente disastrosi. Si è trattato, in definitiva, di una guerra combattuta per due secoli contro l’individuo, i suoi diritti, la sua dignità e la sua sovranità […].
Il comunismo era l’espressione più coerente delle loro aspirazioni» (14).
Il Direttore dell’Isig, quindi, non cade nella trappola terminologica secondo la quale si dovrebbe separare l’idea rivoluzionaria comunista, in sé nobile e giusta, dagli orrori che ne sono derivati, e addebitarli ad un suo preteso tradimento da parte di soggetti deviati e devianti, utilizzando allo scopo come categoria il termine «stalinismo», quasi contrapponendolo a «comunismo». È ormai sufficientemente noto agli studiosi che Josif Vissarionovič Džugasvili, detto «Stalin», (1879-1953) ha semplicemente applicato le leggi ed i sistemi voluti da Vladimir Il’ič Ulianov, detto «Lenin», (1870-1924), senza inventare nulla. Ma è pur vero che ciò è molto meno noto al grande pubblico, non è ancora «luogo comune». Non è cioè di «dominio pubblico» il fatto che, ben prima che Stalin avesse il tempo, il potere e la forza per attuarle compiutamente, era stato Lenin a dare le direttive. «Le masse devono sapere che […] loro compito sarà l’implacabile annientamento del nemico» (29 agosto 1906) (15). «Purgare la terra russa da ogni sorta di insetti nocivi» (Come organizzare la competizione, articolo del 7 e 10 gennaio 1918) (16). «Compagni, la rivolta di cinque distretti di kulaki deve essere repressa spietatamente. […] 1. Impiccare, in modo che il popolo veda, non meno di un centinaio di kulaki noti. […] 3. Prendere loro tutto il grano. 4. Designare gli ostaggi. 5. Attuare un implacabile terrore di massa contro kulaki, pope e guardie bianche; rinchiudere i sospetti in un campo di concentramento fuori della città» (Telegramma del 9 agosto 1918 al Comitato Esecutivo del Partito di Penza) (17). «È ora e soltanto ora, quando nelle regioni affamate la gente mangia carne umana e migliaia di cadaveri coprono le strade, che possiamo (e perciò dobbiamo) procedere alla confisca dei preziosi della Chiesa con la più selvaggia e spietata energia […] senza fermarci dinanzi a nulla. […] sono giunto alla conclusione inequivocabile della necessità di attaccare adesso con la massima decisione e spietatezza i preti […] e vincere la loro resistenza con una brutalità tale che non la dimenticheranno per decenni. Quanto più clero e borghesia reazionari giustizieremo per questo, tanto meglio» (Lettera segreta al Politbjuro del 19 marzo 1922) (18). «Il tribunale non deve eliminare il terrore; prometterlo significherebbe ingannare se stessi o ingannare gli altri; bisogna giustificarlo e legittimarlo sul piano dei principi, chiaramente, senza falsità e senza abbellimenti» (1922) (19).
La risoluzione sui campi di concentramento è del maggio 1918; quella sul «terrore rosso» del 5 settembre 1918; quella sugli ostaggi del 15 febbraio 1919. Gli stessi sistemi sono stati applicati ovunque il comunismo – e non Stalin – abbia conquistato il potere: dalla Spagna del Fronte Popolare (1934-1939), alla Cina; dall’Etiopia del colonnello Hailé Mariam Menghistu, a Cuba; dall’Europa centro-orientale, al Sud Est asiatico, e così via. È un’unica storia di orrore e morte, terrore e miseria. D’altra parte, i «padri fondatori» l’avevano promesso: «I comunisti ricusano di celare le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro scopi possono attuarsi solo tramite l’abbattimento violento di tutto l’ordinamento sociale sin qui esistente. Le classi dominanti tremino di fronte a una rivoluzione comunista» (20). E se il messaggio non fosse chiaro, viene accuratamente precisato. Si tratta «semplicemente» del fatto che «questa persona [“il proprietario borghese”] senz’altro deve essere abolita» (21). Così Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895) nel Manifesto dei comunisti del 1848. Se pure fosse stato necessario, i fatti, la marxiana «prassi», si sono incaricati di dare l’interpretazione autentica di simili «opinioni» e «intenzioni». Insomma, come ha scritto Vladimir Bukovskij, che più che averlo conosciuto lo ha «saggiato», il socialismo reale «[…] era disumano non perché perseguitava gli uomini […] occupava i paesi limitrofi e minacciava il mondo intero, ma proprio per la ragione opposta: il regime faceva quelle cose perché lui era disumano». Ed era disumano perché «l’ideologia comunista era una fonte di male» (22), o, come dice Solženicyn, «un cancro» (23).
Il professor Gasparini, dunque, nella sua Introduzione spiega bene come la Rivoluzione uccida non per quello che le sue vittime hanno fatto e fanno, e meno che meno per una deviazione psicotica di tipo sadico dei suoi attori. Essa uccide per quello che le persone sono, «pues el delito mayor / del hombre es haber nacido» («poiché il delitto maggiore / dell’uomo è d’essere nato») (24), soprattutto se è nato nella classe, nella razza, nella nazione sbagliate. E perciò gli «utopisti coercitivi», guidati dall’«idea» che ha individuato la causa del male nel mondo – in primo luogo quello stesso Dio che l’ha creato male –, ne organizzano la chirurgica rimozione. Allo scopo, istituiscono, una volta impadronitisi del potere, una burocrazia che trasforma in attività di routine la bonifica sociale e la totale «ricostruzione» («ri-creazione») della Città, per trasformarla in «stampo» dell’Uomo e del Mondo Nuovi, finalmente redenti e per «mille anni» perfetti e paradisiaci. È pertanto il «progetto» stesso, cioè l’ideologia che lo alimenta, fin dalla fondazione, come dichiara apertamente il Manifesto, ad avere la pretesa di aver individuato le categorie – che per i comunisti sono di tipo sociale e religioso-culturale, per altri anche etnico-razziali – di uomini da eliminare per risanare il mondo. Ma, sebbene i Rivoluzionari fin dall’inizio ci diano dentro con impegno per estirpare il male dalle radici, né l’Uomo né il Mondo Nuovi, e meno che meno il paradiso, si profilano all’orizzonte. È allora il turno dei «capri espiatori» dell’inevitabile fallimento: altre «fiumane» (25) in marcia verso l’universo concentrazionario, luogo tipico della Rivoluzione, in cui lo sterminio viene pianificato secondo i canoni moderni e tecnocratici della produzione industriale e perciò «razionali». «Espropriazione, concentramento, deportazione, le “unità mobili di sterminio”, l’esecuzione giudiziaria e lo sfruttamento del lavoro forzato fino alla totale consunzione fisica favorita dalla denutrizione e dal freddo»: questi, secondo Besançon (26), i tempi e i modi tipici del potere comunista nella sua azione di distruzione fisica del «nemico di classe»: di quella morale, che ha causato la «catastrofe antropologica» dei sopravvissuti, rimando ad altra occasione.
Stupisce, però, che un osservatore così acuto come il professor Gasparini inserisca nella sua Introduzione, fra gli esecutori del crimine Rivoluzionario nel XX secolo, che così bene descrive e stigmatizza, accanto ai comunisti vari, ai nazi[onalsociali]sti e ai fascisti – e anche per questi ci sarebbe da discutere –, il generale Francisco Franco Bahamonde (1892-1975) e i non meglio identificati «franchisti». Appare davvero problematico ritenere che il Caudillo perseguisse – come è invece giusto dire che la perseguivano comunisti e nazionalsocialisti – la realizzazione di una «modernizzazione intesa […] come affrancamento dalla tradizione, trasposizione al futuro di una nuova religione “secolarizzata” […] come inizio di una nuova e millenaria era» (p. 10), e che mirasse – come gli «altri» miravano – alla reductio ad unum della società, con l’eliminazione di ogni altra istituzione e corpo intermedio fra il singolo e lo Stato. Se la Rivoluzione è anche – come è, e come giustamente la descrive il professor Gasparini – «tecnica del futuro», progetto ideocratico di un Uomo e di un Mondo Nuovi, «utopia coercitiva» del paradiso in terra con esclusione di ogni altra fede, soprattutto se rivolta al trascendente. Se è azione «catartica» e violenta sull’esistente riottoso alla propria trasformazione, e in concreto nei confronti di milioni di uomini perseguitati per il fatto stesso che esistono, pur non essendo previsti dal «progetto» e condannati dall’ideologia, e perché «sordi» al richiamo dell’ artefice della storia. Se la Rivoluzione è, come è, tutto questo, allora inserire Franco fra i «rivoluzionari», e quindi tra i «colpevoli» degli effetti tragici di tali propositi e azioni, appare quasi «convenzionale», e può essere spiegato solo come una sorta di riflesso condizionato da «correttezza politica». Infatti, un simile giudizio è lontanissimo dalla realtà personale, del pensiero e dell’agire politico di Franco, a prescindere dall’opinione che si abbia dell’uomo e della sua parabola storica.
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A sua volta, il dossier messo a disposizione dei lettori (pp. 19-120) contiene tra i numerosi atti della procedura (se ne contano trentotto) i dieci verbali d’interrogatorio (quasi sempre notturno), le note delle spie comuniste, che sorvegliavano fin dal 1928 i frequentatori – quorum l’inquisito – di uno studio odontoiatrico di Wilno ritenuto covo di cospiratori monarchici e contro-rivoluzionari, il verbale delle dichiarazioni del figlio primogenito del prigioniero, Anatolij, ingenuamente entrato nell’Urss nel 1935 da comunista, e immediatamente fucilato. Soprattutto contiene i tratti di penna che segnano il destino di un uomo fino ad allora tranquillo e pacifico, e, quel che più conta, innocente di tutto quello che il senso comune intende come «colpa». Ma «colpevole» di attività anti-sovietica – in realtà, «anti-sovietica» era la sua origine sociale, la sua stessa esistenza. E perciò «condannato» ad otto anni di Itl, «campo correzionale di lavoro», dal quale il povero Aleksej Aleksandrovič non tornerŕ più, nemmeno da morto. Otto anni – in concreto una condanna a morte – inflitti con tre frettolose annotazioni apposte e sottoscritte in tempi diversi dai tre componenti dell’Oso a margine dell’atto, di cui possiamo «ammirare» anche la riproduzione dall’originale, con le «conclusioni dell’ accusa» (p. 88).
Le circolari successive dell’Nkvd, emanate nel 1940, quando Wilno era divenuta Vilnius, siccome la città era stata assegnata dai sovietici alla Lituania, e poi che questa aveva ricevuto l’onore di essere ammessa tra le Repubbliche Socialiste Sovietiche – non senza un «aiutino» dall’Armata Rossa –, precisarono che i soggetti «anti-sovietici» da «liquidare» dovevano essere individuati, tra l’altro, «in base sia al loro stato sociale […] sia alle convinzioni religiose» (p. 152). Per Argamakow, quindi, non ci sarebbe stata comunque speranza, essendo d’origine nobile – e perciò appartenente alla classe degli «sfruttatori», anche se non aveva mai «sfruttato» nessuno –, e credente.
Il fascicolo si conclude con la vergognosa corrispondenza «segreta» tra i «colonnelli burloni» del Kgb di Mosca e di Minsk (pp. 113-119). Nel 1961, «in piena era di Kruščiov [Nikita Sergeevič (1894-1971)], del disgelo e delle prime timide riabilitazioni» (p. 154), disposero che alla richiesta promossa dalla vedova e inoltrata attraverso la Croce Rossa Internazionale di avere notizie di Aleksandr Aleksandrovič, si dovesse rispondere, ovviamente mentendo, «che non è noto dove si trovi ARGAMAKOW A. A.» (p. 117). L’ultimo colpo: segregato per sempre anche da morto, e nessuna notizia vera, né sul modo né sulla data della sua fine.
Fra gli annessi al dossier, un interessante «glossario degli acronimi» e una rassegna degli articoli dei codici penali sovietici russo e bielorusso del 1922, del 1926 e del 1961, concernenti la «repressione delle attività anti-sovietiche e controrivoluzionarie e dei delitti contro lo Stato» (pp. 127-138).
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La lettura degli atti del dossier non appare interessante soltanto per lo studioso o comunque per il tecnico della materia. Ed essi non costituiscono soltanto un reperto unico nel genere – il che basterebbe di per sé a conferire valore insolito alla pubblicazione –, ma rappresentano un modello.
È il modello di come il persecutore di tutti i tempi – sia esso «giudice», «pubblico ministero», commissario politico o «inquirente» della polizia politica che si dica –, anziché risalire dal fatto, e dal suo rapporto con la condotta di una persona, all’ipotesi di reato, discenda da questa – tante volte pura «scatola vuota», in assenza di ogni tipizzazione ragionevole – alla persona, il cui destino è segnato dall’origine sociale – ossessivamente richiamata in ogni atto –, e/o dalla religione che pratica, dalle idee che professa, o altrove dalla «razza» cui appartiene.
«Istruttoria e processo non sono che forme giuridiche, non possono cambiare la tua sorte decisa in anticipo. Se dovete essere fucilati, lo sarete anche se siete innocenti. Se dovete essere assolti, lo sarete, lavati da qualunque macchia, anche se eravate colpevolissimi» (così il giudice istruttore Mironenko, rivolto al condannato a morte Babic, nel lager di Dzidda, 1944) (27). Perché, come fin dal 1° novembre 1918, aveva scritto il cekista Martin Lacis (1888-1937), «noi non stiamo combattendo una guerra contro gli individui. Stiamo sterminando la borghesia come classe. Nel corso delle indagini non cercate di dimostrare che il soggetto ha detto o fatto qualcosa contro il potere sovietico. Le prime domande che dovete porvi sono a quale classe appartiene, qual è la sua origine. Le risposte a queste domande devono determinare il destino dell’accusato. In ciò risiedono il significato e l’essenza del terrore rosso» (28). Tanto, come sosteneva il pubblico accusatore presso la Corte Suprema dell’Urss, Nikolaj Vasil’evič Krylenko (1885-1940) «le finezze giuridiche non occorrono perché non occorre chiarire se l’imputato sia colpevole o innocente: il concetto di colpevolezza, vecchio concetto borghese, è stato adesso sradicato» (29).
Veniamo così posti plasticamente al cospetto di un potere che giustifica se stesso, perché l’«idea» (meglio, l’ideologia) che lo anima si pretende salvifica. Esso, perciò, si ritiene autorizzato a ricorrere ad ogni mezzo – anzi, qualifica il mezzo in funzione dal servizio che rende al «progetto»: «la verità è rivoluzionaria» significa che è vero solo ciò che giova alla Rivoluzione a giudizio dei Rivoluzionari – per affermarsi, conservarsi e perseguire i propri scopi. La sua azione è per definizione «giusta», al di là di ogni concezione «borghese» di giustizia.
Ma allora, perché ricorrere a tutte quelle «formalità» – si pensi solo alle sette richieste di proroga della carcerazione preventiva (il cui termine massimo è un mese!) in dieci mesi, dall’esito scontato, ma che farebbero sorridere un nostro Pm, che ha a disposizione ben altri tempi per ammorbidire un «indagato» – che hanno gonfiato il dossier? Perché gli interrogatori notturni – defatiganti, lo si dice senza ironia, anche per l’inquirente –, le varie formule procedurali, l’attenzione alle imputazioni e al nomen juris di reati che si sa inesistenti, in un contesto in cui non v’è difesa e non v’è processo perché, anche oltre l’Oso, non v’è giudice terzo ed imparziale, non v’è Appello, non v’è Cassazione?
Una risposta potrebbe essere nel fatto che la Rivoluzione si pretende Weltgericht, «giudizio del mondo», che mette in stato di accusa per purificarlo, e perciò deve – DEVE – agire paludata delle vesti del diritto e del processo. E lo fa fin dal tempo del Grande Terrore giacobino, come spiega il grandissimo giurista sardo Salvatore Satta (1902-1975), non meno grande come scrittore, dimostrando come il processo sia così trasformato in «azione rivoluzionaria» (30).
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Igor Argamante illustra, nella sua intensa postfazione che chiude il volume (pp. 141-157), il modo in cui l’esistenza di suo padre è stata cancellata, e come i colpevoli di tutto questo sono stati di fatto «amnistiati» dalla coscienza storica contemporanea, perché una sorta di «amnesia» collettiva ha coperto le loro colpe. E quando pure se ne parla, se la risposta non è un cenno di fastidio, analogo a quello con il quale nella calura estiva si scaccia una mosca petulante, si pretende comunque di discorrerne «in modo contenuto ed educato ed in ambiente ristretto» (p. 157).
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Sia Morte da cani, che la solo apparentemente più arida (ma tali non sono certamente l’Introduzione e la Postfazione) pubblicazione del Dossier n. 51879, meritano non poca attenzione, e soprattutto un ringraziamento all’autore e a chi gli ha consentito di pubblicarle. Si tratta di opere uniche, per le ragioni già evocate, ma anche perché si tratta della prima testimonianza da parte del figlio di una vittima dei crimini del comunismo. È la prima testimonianza «ereditaria». In modo tipicamente tradizionale, cioè con pietà filiale, Igor Argamante Argamakow ha ricevuto una consegna e non l’ha tenuta per sé, ma si è preoccupato di trasmetterla, in qualche modo di «eternarla».
I suoi lavori, fra tante cose, aiutano a capire che le decine di milioni di vittime del comunismo sono tanti Aleksej Aleksandrovič Argamakow, uomini veri, in carne ossa e affetti, e non numeri, del cui sterminio è diretta responsabile l’idea – che nega loro il diritto all’esistenza storica, e con il materialismo anche la stessa dignità di persona – e non già un qualche preteso tradimento di essa. La volontà di negare l’ordine della creazione e di ricostruire il mondo senza Dio, anzi contro Dio, si è tradotta inevitabilmente, come è proprio dell’utopia, in un’azione contro l’uomo (31). Lezione importante in un’epoca in cui, da parte di troppi, non si vuole accettare a proposito del comunismo – ma non solo – che, come ancora Besançon scrive, «quando si pretende di applicare alla realtà una sua concezione falsata, i risultati sono devastanti. La causa ultima del disastro è quindi un’idea inetta che si è impadronita di cervelli inetti o resi tali da questa idea. Grande mistero! Ma spiega perché Dzeržinskij [Feliks Edmundovič, 1877-1926] ammetteva già nel 1917 che per costruire il socialismo sarebbe stato necessario “sterminare alcune classi” e Zinov’ev [Gregorij Evseevič Apfelbaum, detto Z. (1883-1936)] parlava di “annientare” dieci milioni di russi su cento» (32).
Giovanni Formicola

Note (1) Aleksandr Isaevič Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, Aleksandr Isaevic' Solz'enicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, trad. it., 3 voll. in 6 tomi, Mondadori, Milano 1975, vol. II, p. III e p. 127. (2) Ibid., p. 8. (3) Cit. ibid., p. 12. (4) Cfr. Varlam Tichonovič Ŝalamov (1907-1982), I racconti di Kolyma, trad. it., Einaudi, Torino 1999. (5) A. I. Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, cit., vol. II, p. 8. (6) Cfr. Centro Studi «Memorial» (Mosca), Il sistema dei lager in URSS, trad. it., in GULag. Il sistema dei lager in URSS, trad. it., a cura di Marcello Flores e Francesca Gori, Mazzotta, Milano 1999, pp. 25-27. (7) Cfr. Alain Besançon, Novecento, il secolo del male. Nazismo, comunismo, Shoah, trad. it., Ideazione, Roma 2000, p. 42. (8) Cfr. Igor Argamakow, Morte da cani. Piccola storia stalinista, il Mulino, Bologna 2000. (9) Dante Alighieri (1265-1321), La Divina Commedia, Inferno, Canto V, v. 28. (10) Cfr. Zygmunt Bauman, Modernità e Olocausto, trad. it., il Mulino, Bologna 1992, p. 31 e passim. (11) Cfr. I. Argamakov Argamante (a cura di), Archivio KGB di Vilnius (Ltsr). Dossier N° 51879, con una introduzione di Alberto Gasparini, Isig. Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia, Gorizia 2003. Tutti i riferimenti tra parentesi nel testo rimandano a questo volume. (12) Si tratta «di quello straordinario paese […], geograficamente stracciato in arcipelago, ma psicologicamente forgiato in continente, paese quasi invisibile, quasi impalpabile, abitato dal popolo dei detenuti» (A. I. Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa,cit., vol. I, Premessa, p. 10). Besançon sostiene che nel GULag fossero ristretti i prigionieri a «regime duro»; nel resto dell’Urss, quelli a «regime ordinario» (cfr. A. Besançon, Novecento, il secolo del male. Nazismo, comunismo, Shoah,cit., p. 38). Il termine «GULag» è l’acronimo di Glavnoe Upravlenie Lagerej (Amministrazione Centrale dei Lager). (13) Cfr. Rael Jean Isaac; e Erich Isaac, The Coercitive Utopians, Social Deception by America’s Power Players, Regnery Gateway, Chicago (USA) 1983. (14) Vladimir Kostantinovič Bukovskij, Gli archivi segreti di Mosca, trad. it., Spirali, Milano 1999, pp. 787-788. (15) Cit. in Victor Serge (1890-1947), L’anno primo della rivoluzione russa, trad. it., Einaudi 1991, p. 29. (16) Cit. in A. I. Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, cit., vol. I, p. 43. (17) Cit. in Pietro Sinatti, L’atroce logica dell’annientamento, in Il sole-24 ore, Milano 2-2-1997. (18) Cit. in Richard Pipes, Il regime bolscevico. Dal Terrore rosso alla morte di Lenin, trad. it., Mondadori, Milano 2000, pp. 405-406. (19) Cit. in Mihail Geller (1922-1997); e Aleksandr Nekrič, Storia dell’URSS dal 1917 a Eltsin, trad. it., Bompiani, Milano 1997, p. 159. (20) Karl Marx; e Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, trad. it., Newton Compton, Roma 1977, p. 105.(21) Ibid., p. 74. (22) V. K. Bukovskij, op. cit., pp. 741-42. (23) A. I. Solženicyn, I pericoli che incombono sull’Occidente a causa della sua ignoranza della Russia, in Idem, L’errore dell’Occidente. Gli ultimi interventi su comunismo, Russia e Occidente con, in appendice, il «discorso di Harvard», trad. it., La Casa di Matriona, Milano 1980, p. 20. (24) Pedro Calderòn de la Barca (1600-1681), La vita è sogno, vv. 111-112. (25) Cfr. A. I. Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, cit., vol. I, pp. 40-107. (26) Cfr. A. Besançon, Novecento, il secolo del male. Nazismo, comunismo, Shoah,cit., pp. 31-43. (27) Cit. in A. I. Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, cit., vol. I, p. 159. (28) In Krsnij Terror («Terrore Rosso»), periodico della Ceka, cit. in Cristopher Andrew; e Oleg Gordiewskij, La storia segreta del KGB, trad. it., Rizzoli, Milano 1991, p. 58. (29) Cit. in A. I. Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, cit., vol. I, p. 313. (30) Cfr. Salvatore Satta (1902-1975), Il mistero del processo, Adelphi, Milano 1994, pp. 11-37, in particolare, p. 37. (31) «Un mondo senza Dio si costruisce, presto o tardi, contro l’uomo» (Giovanni Paolo II, Messaggio ai giovani di Francia, Parigi, 1 giugno 1980). Cfr. anche: «Il tentativo di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre più sull’ orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’ uomo» (Joseph Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, trad. it., Cantagalli, Siena 2005, p. 62). La tesi viene successivamente così articolata e argomentata, questa volta con l’autorità pontificia: «Chi esclude Dio dal suo orizzonte falsifica il concetto di “realtà” e, in conseguenza,, può finire solo in strade sbagliate e con ricette distruttive. La prima affermazione fondamentale è, dunque, la seguente: Solo chi riconosce Dio, conosce la realtà e può rispondere ad essa in modo adeguato e realmente umano. La verità di questa tesi risulta evidente davanti al fallimento di tutti i sistemi che mettono Dio tra parentesi» (Benedetto XVI, Discorso all’inaugurazione della V Conferenza generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Santuario dell’Aparecida, Aparecida do Norte (San Paolo del Brasile), 13-5-2007, in Supplemento a L’Osservatore Romano del 2-6-2007, p. 9). In questi pronunciamenti si sente l’eco di Henri De Lubac (1896-1991): «Non è poi vero, come pare si voglia dire qualche volta, che l’uomo sia incapace di organizzare la terra senza Dio. Ma ciò che è vero è che, senza Dio, egli non può, alla fine dei conti, che organizzarla contro l’uomo» (Henri De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, 1945, trad. it., Morcelliana, Brescia 1988, p. 9. (32) A. Besançon, La guerra dei bolscevichi contro i contadini, in La Vandea, con una Prefazione di Raoul Girardet e un messaggio di Pierre Chaunu, trad. it., con una Premessa di Sergio Romano e un saggio di Jules Michelet, Corbaccio, Milano 1995, pp. 219-233 (pp. 220-221).
http://www.totustuus.net/modules.php?name=News&file=article&sid=2792

sabato 1 agosto 2009

De Magistris

Le furbate del compare di Di Pietro
Davide Giacalone
Pubblicato il giorno: 31/07/09
de magistris
Se Luigi De Magistris non esistesse, si dovrebbe inventarlo. Egli svolge un ruolo sociale di grande importanza, consistente nel dimostrare perché il prestigio della magistratura è in inarrestabile crollo. Critico spesso i costumi della politica, ne denuncio quelle che mi sembrano imperdonabili insufficienze, ne detesto le cadute di stile. Qualche volta mi coglie il dubbio d'esagerare, qualche altra temo d'essere troppo reticente, rimproverandomi di non utilizzare giudizi ancor più severi. C'è una formazione politica, però, in cui non riesco a trovare un solo lato positivo, un solo aspetto convincente, una sola parola che non desti ripulsa istituzionale: l'Italia dei Valori. Gioca un ruolo nefando nei confronti della sinistra, trattenendola in atteggiamenti reazionari.Rappresenta un rigurgito dell'Italia peggiore. Da ultimo, ne è dimostrazione De Magistris, che dall'esibizionismo giudiziario, dalle inchieste a mezzo stampa, passa direttamente ad un seggio europeo, pronunciando parole bugiarde. Aveva detto che si sarebbe dimesso dalla magistratura, invece ha chiesto l'aspettativa, che sarebbe la versione burocratica del tenere il piede in due scarpe, del fare i faziosi e pretendersi al di sopra delle parti. Il suo capo, del resto, Antonio Di Pietro, si dimise, ma solo per non essere buttato fuori. I due sono gemelli nell'avere utilizzato il ruolo di pm allo scopo di promuovere e propagandare se stessi, adeguandosi all'idea che il diritto s'incarni in quello proprio di mettersi in mostra ed incassare al più presto il corrispettivo della fama così conquistata. Dicono che, adesso, i due siamesi si trovino in un qualche contrasto. Sarebbe ragionevole, giacché non è facile far convivere gente che si considera al servizio esclusivo della propria scalata sociale.Circa la bugia detta da De Magistris, si potrebbe essere indulgenti ed osservare che la falsità è intrinseca alla politica, e le promesse violate ne sono il cacio sui maccheroni. Non la penso così: la politica è materia di alto valore, il praticarla dovrebbe essere un onore, le sue finalità possono essere nobili. A patto non s'empia d'ignobili. Delle bugie di De Magistris, però, non vale la pena occuparsi più di tanto, il fondo limaccioso su cui poggia il partito che lo ha candidato esclude se ne possa ragionare seriamente. Interessa, invece, l'aspetto generale: ai magistrati che si candidano deve essere impedita l'aspettativa, chi intraprende la carriera politica non deve più potere tornare indietro.Risponderanno che, così, si viola la Costituzione, che un magistrato deve avere, almeno, gli stessi diritti politici degli altri. È vero il contrario: la Costituzione prevede esplicitamente che i diritti di taluni abbiano una regolamentazione particolare, quindi si tratta di applicarla, smettendo di violarla. L'articolo 98 è chiarissimo: «Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d'iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera (?) i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici (?)». Ed è giusto che sia così, perché i cittadini non devono temere d'essere inquisiti o giudicati da gente presa da passione politica. I Costituenti, invece, vengono trattati come degli scemi, pertanto non solo non si è fatta la legge necessaria ad applicare questo precetto, ma s'immagina, come nel caso di De Magistris, che non sia violazione della Costituzione l'essere stati eletti, quindi l'essersi candidati per un partito, se prima non s'è presa la tessera. Un imbroglio, reso ancor più grave dal non volere neanche rinunciare ai privilegi dell'anzianità e del futuro stipendio, quindi della doppia pensione. Non si tratta, sia chiaro, del solo De Magistris. Ci sono altri casi, ma tutti, senza nessuna eccezione, scandalosamente incostituzionali.I magistrati hanno una montagna di garanzie, a tutela della loro indipendenza, anche i cittadini hanno diritto a qualche garanzia. La Costituzione ne ha descritto alcune, ma i diretti interessati hanno preso quelle pagine e ne hanno fatto aeroplanini di carta, da tirarsi durante le ore di ozio fra una ripresa tv e le foto per i rotocalchi, in attesa che qualche cittadino arrestato consegni la possibilità di divenire preziosi sul mercato elettorale. Questa storia è parte della malagiustizia italiana, ma evidenzia anche una gravissima corruzione costituzionale.
Grazie a De Magistris, la cosa è ancora più chiara.
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