sabato 23 maggio 2009, 09:23
Chi fa la festa a Falcone? Quelli che lo attaccavano
di Filippo Facci
Al chilometro 4 tra Punta Raisi e Palermo, esattamente diciassette anni fa, esplosero 500 chili di esplosivo che spazzarono via tre auto blindate che non riuscirono a proteggere Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. L’antimafia piagnens. Purtroppo è anche il giorno, oggi, in cui la triste ricorrenza viene imbracciata elettoralmente da un genere di militanza che Falcone detestava: oggi a Napoli l’antipolitica ridens di Beppe Grillo e l’antimafia piagnens di Sonia Alfano saranno al servizio di quell’Italia dei valori che non solo darà voce a cercavoti come Antonio Di Pietro e Luigi De Magistris e la stessa Sonia Alfano, ma da anni accoglie il maggior responsabile della campagna che contribuì all’isolamento di Falcone poco prima che morisse: parliamo di Leoluca Orlando. Chissà se si farà vedere, a questa manifestazione dove interverrà anche una rediviva Clementina Forleo nonostante l’iniziativa sia presentata, sul sito dell’Italia dei valori, appunto come un incontro elettorale: «Appuntamento domani, sabato 23 maggio a Napoli al Palapartenope, alla manifestazione “Lotta per i diritti” per sostenere Luigi De Magistris e Sonia Alfano, candidati alle elezioni europee nelle liste di Italia dei Valori».
Purtroppo è lo stesso ambiente che si prepara a pompare il fumosissimo processo che i pubblici ministeri Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, a Rebibbia, stanno portando avanti per dimostrare che una trattativa tra Stato e mafia, nel 1992, portò all’assassinio di Falcone e Borsellino. Proprio così. Ne accennavano ieri un paio di quotidiani: ora è venuto fuori che Brusca ha parlato di un accordo tra Totò Riina e un politico per ora innominato, e non si riesce proprio a immaginare di che ambienti possa trattarsi. Per capire dove vogliano andare a parare, comunque, basta leggere alcune farneticazioni scritte negli ultimi mesi dallo stenografo a latere Marco Travaglio, noto ventriloquo di Antonio Ingroia. Un’altra volta, però.
La primavera di Orlando. Il democristiano Leoluca Orlando era diventato sindaco di Palermo e aveva inaugurato una cosiddetta primavera che auspicava un gioco di sponda tra procura e istituzioni. Poi, nell’estate 1989, il pentito Giuseppe Pellegriti accusò l’andreottiano Salvo Lima di essere il mandante di una serie di delitti palermitani, una calunnia che Falcone fiutò subito. Orlando cominciò a dire e non dire che Falcone volesse proteggere Andreotti. Durante una puntata di «Samarcanda» Orlando lo disse chiaramente: il giudice aveva dei documenti sui delitti eccellenti ma li teneva chiusi nei cassetti della Procura di Palermo. Una menzogna che verrà ripetuta a ritornello, dimostrata come falsa anche davanti al Csm. È di quel periodo anche un primo e sottovalutatissimo attentato a Falcone, una bomba ritrovata nella sua casa all’Addaura. Poi, quando Falcone accettò l’invito del Guardasigilli Claudio Martelli a dirigere gli Affari penali, la gragnuola delle accuse si fece ancora più infame.
Dissero che si era venduto al potere politico e contro di lui si scagliarono la sinistra, gli andreottiani, il Giornale di Napoli («Dovremo guardarci da due Cosa Nostra») e poi Repubblica e anche il Giornale. Memorabile un titolo dell’Unità: «Falcone preferì insabbiare tutto». L’autunno di Falcone. Poi, a macerie fumanti, ecco il tentativo di sfruttare la morte di Falcone per portare acqua a Mani pulite. Falcone morì un sabato, e il lunedì la Repubblica uscì in edizione straordinaria col titolo «L’ultima telefonata con Di Pietro». Svolgimento: «Provava un’affettuosa invidia per Colombo e Di Pietro», «si è saputo solo ieri che Falcone seguiva l’inchiesta sulle tangenti», «una tonnellata di tritolo ha spezzato il suo contributo all’indagine milanese». Perfetto un riquadrino di Repubblica: «Arriva Antonio Di Pietro da Milano, il giudice delle tangenti, il Falcone del Nord... con lui c’è Leoluca Orlando».
Falcone, in realtà, stava solo disponendo alcune rogatorie internazionali chieste dal Pool Mani pulite: era il suo lavoro. Saranno Claudio Martelli e Ilda Boccassini, da emisferi diversi, a spiegare che Falcone era affranto perché il Pool di Milano a quanto pare non si fidava di lui. La verità processuale sulla sua morte la racconterà Giovanni Brusca, l’uomo che azionò il telecomando che uccise il giudice e tutti gli altri: «Era il primo magistrato che era riuscito a metterci seriamente in difficoltà. Lo odiavamo, lo abbiamo sempre odiato... Prendemmo la decisione iniziale di ucciderlo, per la prima volta, alla fine del 1982... Non tramontò mai il progetto di ucciderlo».
Dal 23 maggio 1992 undici inchieste hanno affrontato la strage di Capaci, sei processi hanno inchiodato i corleonesi alle rivelazioni di Brusca, infinite altre indagini hanno esplorato e sfibrato la favola dei «mandanti» Berlusconi e Dell’Utri indagati a Palermo, Caltanissetta e Firenze: tutto sempre archiviato. L’inverno della giustizia. Ma non mai finita. A Rebibbia corre appunto il processo a carico del prefetto Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu, ex ufficiali del Ros accusati di favoreggiamento per aver impedito la cattura di Bernardo Provenzano nell’ottobre 1995: questa almeno l’accusa scaturita da una testimonianza del colonnello Michele Riccio dei Carabinieri. Difficile, ora, riassumere i passaggi pirandelliani che hanno portato a ciò che tanto affascina Antonio Ingroia: la già stra-affrontata, peraltro, tesi di un’improbabile trattativa tra Stato e mafia nel 1992-1993, qualcosa che avrebbe portato appunto lo Stato a trucidare Falcone e Borsellino.
Fa niente se lo stesso Brusca aveva già chiarito che l’intento di ammazzare Falcone risaliva addirittura al 1982. Fa niente se dalle pieghe dell’inchiesta è persino venuta fuori la stramberia secondo la quale per l’eredità di Salvo Lima, intesa come ponte tra mafia e istituzioni, fu offerto un contatto con la Lega di Bossi. Fa niente se sentiremo parlare ancora a lungo del fantasma di Luigi Ilardo, un pentito, poi ucciso, secondo il quale regista di tutte le stragi del ’92-93 fu Forza Italia. Essendo nulla, finirà in nulla. Se almeno, però, lasciassero in pace Giovanni Falcone.
http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=353392
Chi fa la festa a Falcone? Quelli che lo attaccavano
di Filippo Facci
Al chilometro 4 tra Punta Raisi e Palermo, esattamente diciassette anni fa, esplosero 500 chili di esplosivo che spazzarono via tre auto blindate che non riuscirono a proteggere Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. L’antimafia piagnens. Purtroppo è anche il giorno, oggi, in cui la triste ricorrenza viene imbracciata elettoralmente da un genere di militanza che Falcone detestava: oggi a Napoli l’antipolitica ridens di Beppe Grillo e l’antimafia piagnens di Sonia Alfano saranno al servizio di quell’Italia dei valori che non solo darà voce a cercavoti come Antonio Di Pietro e Luigi De Magistris e la stessa Sonia Alfano, ma da anni accoglie il maggior responsabile della campagna che contribuì all’isolamento di Falcone poco prima che morisse: parliamo di Leoluca Orlando. Chissà se si farà vedere, a questa manifestazione dove interverrà anche una rediviva Clementina Forleo nonostante l’iniziativa sia presentata, sul sito dell’Italia dei valori, appunto come un incontro elettorale: «Appuntamento domani, sabato 23 maggio a Napoli al Palapartenope, alla manifestazione “Lotta per i diritti” per sostenere Luigi De Magistris e Sonia Alfano, candidati alle elezioni europee nelle liste di Italia dei Valori».
Purtroppo è lo stesso ambiente che si prepara a pompare il fumosissimo processo che i pubblici ministeri Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, a Rebibbia, stanno portando avanti per dimostrare che una trattativa tra Stato e mafia, nel 1992, portò all’assassinio di Falcone e Borsellino. Proprio così. Ne accennavano ieri un paio di quotidiani: ora è venuto fuori che Brusca ha parlato di un accordo tra Totò Riina e un politico per ora innominato, e non si riesce proprio a immaginare di che ambienti possa trattarsi. Per capire dove vogliano andare a parare, comunque, basta leggere alcune farneticazioni scritte negli ultimi mesi dallo stenografo a latere Marco Travaglio, noto ventriloquo di Antonio Ingroia. Un’altra volta, però.
La primavera di Orlando. Il democristiano Leoluca Orlando era diventato sindaco di Palermo e aveva inaugurato una cosiddetta primavera che auspicava un gioco di sponda tra procura e istituzioni. Poi, nell’estate 1989, il pentito Giuseppe Pellegriti accusò l’andreottiano Salvo Lima di essere il mandante di una serie di delitti palermitani, una calunnia che Falcone fiutò subito. Orlando cominciò a dire e non dire che Falcone volesse proteggere Andreotti. Durante una puntata di «Samarcanda» Orlando lo disse chiaramente: il giudice aveva dei documenti sui delitti eccellenti ma li teneva chiusi nei cassetti della Procura di Palermo. Una menzogna che verrà ripetuta a ritornello, dimostrata come falsa anche davanti al Csm. È di quel periodo anche un primo e sottovalutatissimo attentato a Falcone, una bomba ritrovata nella sua casa all’Addaura. Poi, quando Falcone accettò l’invito del Guardasigilli Claudio Martelli a dirigere gli Affari penali, la gragnuola delle accuse si fece ancora più infame.
Dissero che si era venduto al potere politico e contro di lui si scagliarono la sinistra, gli andreottiani, il Giornale di Napoli («Dovremo guardarci da due Cosa Nostra») e poi Repubblica e anche il Giornale. Memorabile un titolo dell’Unità: «Falcone preferì insabbiare tutto». L’autunno di Falcone. Poi, a macerie fumanti, ecco il tentativo di sfruttare la morte di Falcone per portare acqua a Mani pulite. Falcone morì un sabato, e il lunedì la Repubblica uscì in edizione straordinaria col titolo «L’ultima telefonata con Di Pietro». Svolgimento: «Provava un’affettuosa invidia per Colombo e Di Pietro», «si è saputo solo ieri che Falcone seguiva l’inchiesta sulle tangenti», «una tonnellata di tritolo ha spezzato il suo contributo all’indagine milanese». Perfetto un riquadrino di Repubblica: «Arriva Antonio Di Pietro da Milano, il giudice delle tangenti, il Falcone del Nord... con lui c’è Leoluca Orlando».
Falcone, in realtà, stava solo disponendo alcune rogatorie internazionali chieste dal Pool Mani pulite: era il suo lavoro. Saranno Claudio Martelli e Ilda Boccassini, da emisferi diversi, a spiegare che Falcone era affranto perché il Pool di Milano a quanto pare non si fidava di lui. La verità processuale sulla sua morte la racconterà Giovanni Brusca, l’uomo che azionò il telecomando che uccise il giudice e tutti gli altri: «Era il primo magistrato che era riuscito a metterci seriamente in difficoltà. Lo odiavamo, lo abbiamo sempre odiato... Prendemmo la decisione iniziale di ucciderlo, per la prima volta, alla fine del 1982... Non tramontò mai il progetto di ucciderlo».
Dal 23 maggio 1992 undici inchieste hanno affrontato la strage di Capaci, sei processi hanno inchiodato i corleonesi alle rivelazioni di Brusca, infinite altre indagini hanno esplorato e sfibrato la favola dei «mandanti» Berlusconi e Dell’Utri indagati a Palermo, Caltanissetta e Firenze: tutto sempre archiviato. L’inverno della giustizia. Ma non mai finita. A Rebibbia corre appunto il processo a carico del prefetto Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu, ex ufficiali del Ros accusati di favoreggiamento per aver impedito la cattura di Bernardo Provenzano nell’ottobre 1995: questa almeno l’accusa scaturita da una testimonianza del colonnello Michele Riccio dei Carabinieri. Difficile, ora, riassumere i passaggi pirandelliani che hanno portato a ciò che tanto affascina Antonio Ingroia: la già stra-affrontata, peraltro, tesi di un’improbabile trattativa tra Stato e mafia nel 1992-1993, qualcosa che avrebbe portato appunto lo Stato a trucidare Falcone e Borsellino.
Fa niente se lo stesso Brusca aveva già chiarito che l’intento di ammazzare Falcone risaliva addirittura al 1982. Fa niente se dalle pieghe dell’inchiesta è persino venuta fuori la stramberia secondo la quale per l’eredità di Salvo Lima, intesa come ponte tra mafia e istituzioni, fu offerto un contatto con la Lega di Bossi. Fa niente se sentiremo parlare ancora a lungo del fantasma di Luigi Ilardo, un pentito, poi ucciso, secondo il quale regista di tutte le stragi del ’92-93 fu Forza Italia. Essendo nulla, finirà in nulla. Se almeno, però, lasciassero in pace Giovanni Falcone.
http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=353392
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