martedì 28 luglio 2009

L'inno nazionale: una libera traduzione del testo

Italiani, fratelli in una stessa Patria!
È giunta la nostra ora, finalmente.
L’Italia si è risvegliata da un sonno troppo lungo e ha indossato nuovamente l’elmo che fu di Scipione l’Africano, l’eroe di Zama.
Se riusciremo a vincere?
Ma non vedete che la dea Vittoria ha scelto di offrirsi alla nuova Italia, affinché rinnovi la gloria di quella Roma antica di cui essa stessa fu schiava, per volere divino?
Considerate la nostra condizione: da secoli siamo schiacciati sotto il tallone straniero, da secoli abbiamo perduto dignità e onore. Questo perché non siamo un vero popolo, perché la nostra Patria è smembrata in sette stati, sette confini, sette insegne. Ma se ci raccogliamo attorno a un unico vessillo di libertà, se ci affidiamo tutti alla medesima speranza di libertà, allora capiremo che è scoccata l’ora di divenire una cosa sola, un’anima sola.
Uniamoci nella concordia, amiamoci nella fratellanza: soltanto attraverso l’unione, soltanto grazie all’amore riusciremo a scorgere e a intraprendere il cammino che il Signore ha voluto destinarci. Giuriamo, allora, di far libera la nostra Patria: se lo faremo, e se Dio ci renderà uniti, nessuno sarà in grado di sconfiggerci!
Guardatevi attorno. Non vedete che ovunque, dalle Alpi alla Sicilia, si rinnova l’antico giuramento di libertà della Lega Lombarda contro il Barbarossa, che rese sacra la giornata di Legnano?
Non vi accorgete che ognuno di noi è degno di figurare, per generosità e coraggio, accanto a Francesco Ferrucci, colui che difese, nel 1530, la libertà di Firenze contro l’esercito imperiale di Carlo V?
Su di lui, ferito e prigioniero, si scagliò la furia omicida di Maramaldo, italiano al soldo straniero. Ma fece in tempo, Francesco, a scagliargli l’anatema del disprezzo – Tu uccidi un uomo morto – che avrebbe segnato per sempre, col marchio dell’infamia, il nome del suo uccisore.
Non capite che anche nei più giovani figli d’Italia cova l’animo e l’ardimento del figlio del popolo genovese, il Balilla?
Quel sasso scagliato dalla mano di fanciullo divenne un macigno e accese la rivolta che travolse gli Austriaci e li scacciò dalla Superba, giusto cento anni fa.
E non sentite che, oggi, ogni campana d’Italia sta battendo gli stessi rintocchi che, sei secoli fa, chiamarono i siciliani ai loro Vespri?
Gli eserciti mercenari d’Austria sono deboli come giunchi piegati dal vento, e la nera aquila bicipite d’Asburgo, una volta fiera e tracotante, è ormai una spennacchiata parodia di se stessa. È riuscita ancora, è vero, insieme con l’alleato russo, a straziare l’Italia e la fiera Polonia, bevendo il sangue che sgorgava dalle crudeli ferite. Ma quel sangue si è tramutato in veleno, dilaniandole il cuore.
È tempo di agire: ovunque ci si serri in armi, ogni cittadino si faccia soldato. E ciascuno sia pronto a morire, perché a chiamarci è stata la nostra Madre Italia!
GOFFREDO MAMELI
Genova, 1847

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