lunedì 3 dicembre 2007

Afghanistan, le responsabilità della morte di Paladini non ricadono solo sui talebani


Afghanistan, le responsabilità della morte di Paladini non ricadono solo sui talebani
Terrorismo islamico - lun 26 nov

di Emiliano Stornelli

Tratto da il 25 novembre 2007

E' stato rivendicato dai talebani l’attentato che sabato a Kabul, durante l’inaugurazione di un ponte, è costato la vita al maresciallo capo Daniele Paladini e ha causato il ferimento di altri tre soldati italiani.

Morti anche nove civili afgani, tra cui sei bambini. L’attentatore suicida era stato individuato dai militari e si è fatto esplodere quando gli si sono avvicinati. La strage era nell’aria: si tratta del quinto attacco che il nostro contingente subisce nelle ultime due settimane, i precedenti fortunatamente hanno avuto un bilancio molto meno pesante (un solo ferito lievemente al ginocchio).

Le forze politiche, alcune sinceramente altre meno, si sono trovate concordi nell’esprimere cordoglio e nell’evitare strumentalizzazioni politiche dell’accaduto, con la solita eccezione di quel solito comunista di Oliviero Diliberto, per nulla stancatosi di reclamare il ritiro delle truppe dall’Afghanistan. Ed è proprio questo il punto. La regia degli attentati non ha voluto colpire solo la cooperazione tra la Nato e la popolazione locale, che agli afgani dà lavoro sottraendo manodopera ai signori del terrore. Attaccare il nostro contingente significa soprattutto toccare un nervo scoperto dell’attuale governo italiano, la cui ambiguità rispetto alla missione in Afghanistan e alla guerra al radicalismo islamico e alle sue manifestazioni terroristiche, si ripercuote negli scenari di crisi dove le forze armate sono impegnate.

Contrariamente a Diliberto e compagni, non si ha la minima intenzione di servirsi della morte di Paladini per fare polemiche sterili; piuttosto, si rileva la necessità di stabilire – una volta tanto – a chi vanno attribuite le responsabilità. Responsabilità che non sono, in tutta evidenza, della guerra “colonialista” di Nato e Stati Uniti, e non appartengono semplicemente a talebani e qaedisti, ma altresì ricadono sulle forze dichiaratamente comuniste che siedono nel nostro parlamento e rivestono ancora le piazze di rosso, nonché sul governo tutto e in particolare sul premier, sul ministro degli Esteri e (in misura minore) sul ministro della Difesa. Prodi, D’Alema e Parisi, con la persistente demagogia sul cambio di strategia e il rafforzamento della natura civile della missione, le stoccatine per le morti civili provocate dalle operazioni americane, la pantomima per il rinnovo della missione, la riluttanza ad inviare rinforzi, l’insistenza per la convocazione di una conferenza internazionale cui avrebbero dovuto partecipare pure i talebani (sciocchezza questa che furbescamente D’Alema ha evitato di proferire, lasciando l’onore a Piero Fassino), hanno fatto dell’Italia l’anello politicamente debole dell’Alleanza Atlantica. E ciò di conseguenza, pur non essendo in prima linea e occupandoci principalmente di ricostruzione, non ha reso i nostri militari immuni da attacchi, ma all'opposto ne ha fatto un bersaglio strategicamente appetibile per indebolire la forza Nato nel suo complesso.

Non appena al potere, alla chetichella (come nello stile di Parisi e della sua politica del silenzio imposta allo svolgimento delle missioni militari in Afghanistan e Libano) il governo ha provveduto al ritiro dell’Italia da Enduring Freedom, la coalition of the willing messa insieme dall’amministrazione Bush all’indomani dell’11 settembre contro il regime terrorista talebano, e che ha gradualmente ceduto il controllo del territorio alla missione Isaf della Nato, ma che è tuttora presente e attiva in Afghanistan. Un primo ritiro dunque c’è già stato e i talebani stanno cercando di provocare il secondo. Ciò getta fango sulla politica italiana, ma non sulle forze armate, del cui tributo per la difesa e l'affermazione dei valori universali dell'Occidente di democrazia e libertà dobbiamo certamente essere orgogliosi.
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