venerdì 30 novembre 2007

Militare si sacrifica per salvare i bambini dall'attacco kamikaze

Militare si sacrifica per salvare i bambini dall'attacco kamikaze di CARLO NICOLATO
È morto da eroe. Daniele Paladini, 35 anni, maresciallo del 2° reggimento del Genio Pontieri di Piacenza, aveva sentito da poco casa rassicurando la moglie Alessandra e la figlia Ilaria di 5 anni. La valle di Pagman dove lui si trovava, a circa 15 chilometri a ovest di Kabul è una zona tranquilla, per quanto possa esserlo qualsiasi metro quadrato in Afghanistan. Lì, il Genio Pontieri in forza alla missione Isaf stava costruendo un ponte. La popolazione era in festa, mancava solo una spalletta, e in tanti davano una mano per terminarla. I bambini erano scesi in strada festanti e avevano circondato i militari italiani al lavoro. Di guardia, tra gli altri, c'era Daniele. IL SACRIFICIO DI PALADINI Dicono che a un certo punto hanno visto un uomo che li ha insospettiti. Camminava solitario sul greto del fiume, sembrava si avvicinasse per chiedere informazione. «Usano queste tattiche subdole perché oramai si sentono accerchiati, alla fine» dice il portavoce della forza di sicurezza internazionale della Nato (Isaf), il capitano Alessandro Ciavarrella. Quell'uomo infatti era imbottito di 10 chili tra esplosivo, pezzi di metallo, viti, chiodi schegge. Non appena i soldati italiani si sono avventati su di lui per tentare di bloccarlo prima che raggiungesse la folla, si è fatto esplodere. Erano quasi le dieci del mattino. Nove afghani fra i quali 4 bambini sono morti sul colpo. «Ci rimettono sempre i bambini - aggiunge sconsolato Ciavarrella - sono loro le vere vittime dei Talebani». Dei militari solo Paladini giaceva a terra esanime. Hanno cercato di rianimarlo, ce l'hanno fatta. Sembrava salvo, parlava, forse non aveva ferite gravi. Poi improvvisamente la crisi. L'onda d'urto dell'esplosione gli aveva sconquassato il cuore che non aveva retto. Non è riuscito ad arrivare nemmeno all'ospedale di Kabul. Il capitano Salvatore Di Bartolo, il capitano Stefano Ferrari e il caporale maggiore scelto Andrea Bariani sono rimasti lievemente feriti. LE RIVENDICAZIONI IMPRECISE Il sacrificio di Paladini ha evitato che il bilancio della strage fosse ancora più pesante: «È stata una reazione immediata - ha spiegato Ciavarrella - che ha consentito l'individuazione dell'attentatore e il suo parziale isolamento». Secondo il governo afgano, che ha fermamente condannato l'attentato, si è trattato di un «brutale attacco contro l'umanità, l'Islam e la Stabilità dell'Afghanistan» con l'obiettivo di uccidere i militari dell'Isaf. Secondo il portavoce Isaf invece l'intenzione dell'attentatore era quella di fare più morti possibile tra la popolazione locale: «È quello il loro obiettivo». Quel che è sicuro è che il kamikaze era solo e ha agito da solo. Puntuale è arrivata la rivendicazione su un sito web talebano: «Oggi alle 10 uno dei nostri, Mustaffa, ha condotto un attacco contro le truppe italiane nell'area Bubel Chiani del distretto di Pagman che ha distrutto uno dei loro veicoli militari». Per la verità la rivendicazione appare un po' imprecisa, così come quella riportata dall'agenzia di stampa afghana Pajhwok alla quale un portavoce degli studenti coranici, Zabihulla Mujahid, avrebbe riferito che il kamikaze chiamato Mustaffa avrebbe ucciso 4 militari stranieri e distrutto un blindato. ERA NATO A LECCE Daniele Paladini era nato a Lecce e viveva a Novi Ligure. Paladini aveva già partecipato a due missioni all'estero: una nel maggio 2005 e la seconda nel novembre 2005 nel Kosovo. Era partito per l'Afghanistan nel luglio scorso; la missione per lui sarebbe finita il prossimo gennaio. La sua famiglia non ha avuto per ora la forza di parlare. Ma il generale di Brigata Meano, dopo una visita a Novi Ligure, ha assicurato di aver «trovato una famiglia forte nel dolore, stretta intorno alla bimba». La salma del maresciallo capo e gli altri tre militari feriti rientreranno oggi in Italia con due voli distinti diretti entrambi a Ciampino. Per Paladini sono previsti funerali solenni. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è già espresso: «Il Paese gli è immensamente riconoscente». Romano Prodi, invece, ha incontrato i tre feriti italiani ieri sera ad Abu Dhabi, dove erano atterrati per uno scalo tecnico, mentre il premier era appena giunto per una visita ufficiale negli Emirati Arabi. «I militari sono in buone condizioni», ha detto il premier.
http://www.libero-news.it/libero/LP_showArticle.jsp?edition=25%2F11%2F2007&topic=4921&idarticle=89657258

Insulti per lo 007 rapito e ucciso in Afghanistan

Insulti per lo 007 rapito e ucciso in Afghanistan
di Fausto Biloslavo - martedì 09 ottobre 2007

Modena - La vedova con il piccolo Luca fra le braccia, nato lo scorso luglio, la bara avvolta dal tricolore, portata a spalla dai paracadutisti e il grido di battaglia «Folgore» sono state le immagini, i momenti più toccanti dell’ultimo saluto al maresciallo capo Lorenzo D’Auria. Un funerale insozzato soltanto da una scritta ingiuriosa apparsa venerdì notte a 200 metri dal Duomo di Modena, dove ieri si sono svolte le esequie davanti a un migliaio di persone. Il testo dello slogan, sul filone di «10, 100, 1.000 Nassirya», non è stato volutamente reso noto. Dal municipio di Modena fanno solo sapere che si tratta di una scritta in due parti, che contiene una pesante ingiuria e finisce con «per te è finita male». Almeno una delle due frasi fa un’indegna rima e quindi l’ingiuria nei confronti del maresciallo D’Auria potrebbe essere «maiale».
A Modena, anche ieri mattina ai funerali, circolava insistente la voce che la parte più inquietante dello slogan fosse «10, 100, 1.000 D’Auria», come nel caso della strage di Nassirya, ma la notizia non è confermata. La mano che ha oltraggiato il ricordo del militare è ignota, ma si sospetta che la scritta possa essere riconducibile a gruppi anarcoidi o all’ambiente estremista di Libera, un centro sociale del capoluogo emiliano, già noto per azioni provocatorie.
L’orribile slogan è apparso sulla chiesa sconsacrata di San Giovanni, in piazza Matteotti, nel centro di Modena, a un passo della cattedrale dove si sono svolti i funerali dell’agente del Sismi rapito in Afghanistan il 24 settembre e poi morto per le ferite riportate durante il raid che lo ha liberato.
L’associazione «Vivere sicuri», che si batte contro il degrado della città, l’ha subita fotografata e cancellata, secondo gli accordi presi con il Comune, gestito da una maggioranza di centro sinistra. Dell’oltraggio è stata informata la Digos, che ha attivato le indagini, ma la vicenda era stata tenuta nascosta fino alle esequie di D’Auria nel rispetto del dolore della famiglia. Ieri, nella cattedrale c’era anche il sindaco di Modena, il diessino Mario Pighi, che ha deciso di inoltrare una denuncia per «apologia di delitto e danneggiamento aggravato».
La Digos ha proceduto comunque d’ufficio, ma il primo cittadino ha voluto sottolineare la gravità del fatto con un esposto: «Di fronte al dolore dei genitori e dei familiari - dice Pighi -, con l’immagine scolpita della giovane vedova con in braccio il bambino di pochi mesi e col pensiero degli altri due figli ancora in tenera età rimasti senza padre credo non si possa tollerare un gesto di tale vigliaccheria».
Peccato, però, che il Comune non voglia rendere noto il testo integrale della scritta oltraggiosa e tantomeno consegnare alla stampa le fotografie in possesso del sindaco. Il motivo è semplice: se la scritta fosse veramente, come ha ricostruito il Giornale, «10, 100, 1.000 D’Auria – maiale questa volta ti è andata male», si tratterebbe di un eclatante caso politico. Non a caso le reazioni sono state durissime e in gran parte unanimi. Il leghista Roberto Maroni ha dichiarato: «La mano, purtroppo, è sempre la stessa e appartiene a coloro che gridano 10, 100, 1.000 Nassirya, che inneggiano agli assassini di Marco Biagi».
Ieri mattina alle 11 circa un migliaio di persone hanno dato l’ultimo saluto al maresciallo capo D’Auria. Il feretro è stato accolto da un lungo applauso al suo arrivo nella piazza davanti alla cattedrale. I paracadutisti della Folgore, dove D’Auria aveva passato la sua vita sotto le armi, prima di passare un anno fa al Sismi, hanno portato a spalla la bara. Il picchetto d’onore era composto dai rappresentanti di tutte le forze armate, ma la presenza più toccante è stata quella della vedova con il piccolo Luca in braccio, l’ultimo nato di tre fratelli.
Alla cerimonia era presente il ministro della Difesa Arturo Parisi. I funerali sono stati celebrati dall’arcivescovo di Modena-Nonantola, Benito Cocchi, e concelebrati da altri sacerdoti, tra cui il parroco di Calcara di Crespellano, la parrocchia in cui D’Auria ha ricevuto la prima comunione, amico di famiglia.
A conclusione della cerimonia funebre la bara è stata accompagnata fuori dal Duomo preceduta dal cuscino con la sciabola del maresciallo capo e il suo basco amaranto da paracadutista.

IL GOVERNO HA DIMENTICATO I RINFORZI PER HERAT

Analisi Difesa anno 8 numero 75 - 011 - ENDURING FREEDOM

IL GOVERNO HA DIMENTICATO I RINFORZI PER HERAT
di Gianandrea Gaiani

19 aprile - Ma che fine hanno fatto i rinforzi in truppe e mezzi destinati a raggiungere Herat al più presto?
L’acceso dibattito politico sul caso Mastrogiacomo, le questioni Telecom e Alitalia e la nascita del nuovo Partito Democratico sembrano aver fatto dimenticare a tutti la questione dei rinforzi forse perchè a causa della querelle sul ruolo di Emergency si sono create crepe ancora più profonde all’interno della maggioranza di governo. Eppure il ministro degli esteri., Massimo D’Alema, da New York aveva dichiarato il 20 marzo che “la guerriglia sta arrivando anche a Herat" e per le truppe italiane si profilano “momenti difficili”? E allora cosa aspetta il governo a inviare i rinforzi ?

La partenza dei velivoli teleguidati Predator, degli elicotteri d’attacco Mangusta, dei cingolati Dardo e di un pugno di fanti è stato al centro del dibattito politico fino alla riunione del Consiglio Supremo di Difesa che il 2 aprile aveva recepito le proposte della Difesa indicando queste forze per aumentare le capacità di auto protezione del contingente italiano schierato nell’Afghanistan Occidentale.Un’area nella quale le truppe italiane e alleate sono sempre più esposte, come conferma anche il recente rapporto del SISMI, al rischio di attacchi e attentati terroristici. Il suggerimento del Quirinale deve però essere ratificato dal Consiglio dei ministri per divenire operativo ma la classe politica sembra aver dimenticato che alla sicurezza dei nostri militari che invece imporrebbe tempi stretti. Considerando il crescente coinvolgimento delle truppe italiane nelle recenti operazioni siamo già in netto ritardo per rafforzare i reparti in vista dell’annunciata offensiva talebana di primavera che sembra essere già cominciata Se il governo glissa sui rinforzi l’ala sinistra dell’Unione contesta l’invio degli elicotteri d’attacco Mangusta in Afghanistan. Un’interrogazione presentata dai senatori del PRC Giannini, Menapace, Martone e Del Roio al ministro della Difesa precisa che “l'utilizzo di tali mezzi sarebbe in netto contrasto con le regole d'ingaggio del contingente italiano, che non prevedono manovre d'attacco”.

Il rischio è quindi che per evitare ulteriori dissidi interni alla maggioranza il governo decida di posticipare ogni decisione in merito, anche perché l’ala sinistra dell’Unione, che pure ha votato il decreto di rifinanziamento della missione, è pronta a dare battaglia sul reperimento dei 20 milioni di euro necessari a sostenere i costi dell’invio dei rinforzi.L’ipotesi di un ritardo ad oltranza provoca preoccupazioni negli ambienti militari I reparti interessati stanno già preparando mezzi e personale destinati a rischierarsi in Afghanistan ma finora non sono arrivati dallo Stato Maggiore Difesa gli ordini relativi, che attendono ovviamente il via libera del governo. Considerando che per trasferire i mezzi a Herat si dovranno utilizzare cargo americani o affittare gli Antonov in Ucraina, i tempi per la piena operatività dei mezzi sono già slittati ben oltre l’inizio di maggio previsto inizialmente.I due teleguidati Predator e i cinque elicotteri Mangusta richiedono infatti un ampio supporto tecnico e logistico e oltre all’afflusso dei mezzi e del personale, ad Herat occorrerà assemblare hangar campali per la manutenzione ed effettuare voli d’ambientamento per velivoli ed equipaggi.

I familiari dei morti in Iraq in tribunale contro i pacifisti

I familiari dei morti in Iraq in tribunale contro i pacifisti
per la "maglietta dei caduti"

Testata: Corriere della Sera
Data: 25 settembre 2007
Pagina: 21
Autore: Monica Ricci Sargentini
Titolo: «La «maglietta dei caduti» divide l'America»


Dal CORRIERE della SERA del 25 settembre. Un articolo su una vicenda, che, comunque si concluda da un punto di vista legale, giustifica da subito un chiaro giudizio morale.
Di condanna per il cinismo dei pacifisti che sfruttano il nome dei caduti in guerra ignorando i sentimenti dei loro congiunti.
Ecco il testo:

Alcuni la considerano una bandiera della libertà d'espressione, altri un ignobile mercimonio della memoria dei caduti. Una maglietta pacifista sta facendo litigare l'America. «Bush lied» è lo slogan rosso fuoco stampato sul davanti della t-shirt, «They died» la triste replica sul lato posteriore. «Bush ha mentito, loro sono morti». Loro sono i soldati americani caduti in Iraq, 3.734 nomi riportati in caratteri minuscoli sul capo in vendita su Internet. L'idea di usare la loro fine a scopi commerciali è stata di Dan Frazier, pacifista squattrinato con velleità imprenditoriali. Nel 2003 Frazier fonda CarryaBigSticker.com,
un sito che vende adesivi da attaccare sui paraurti delle macchine per protestare contro la guerra in Iraq. Il tempo passa, i morti aumentano e lo sticker diventa una t-shirt usata dai pacifisti durante i sit-in di protesta. Finché un giorno Margy Bons non la vede e si mette a piangere. Suo figlio, Michael Marzano, in Iraq ci ha lasciato la vita ma lui nella guerra ci credeva, non avrebbe mai condiviso il messaggio della maglietta. E così da Phoenix, in Arizona, Margie lancia la sua crociata «per proteggere la memoria dei caduti». E tante famiglie colpite dal lutto la appoggiano. Dall'Oklahoma al Texas la gente va su tutte le furie. Frazier viene sommerso dalle lettere di protesta, ha persino paura a rispondere al telefono. «Questo disgraziato — si legge sul sito Rightwinged. com — dovrebbe completare lo slogan e scrivere "Bush ha mentito, loro sono morti e io ho incassato".
Frazier va avanti, imperterrito, senza crisi coscienza: «Non smetterò certo di dormire — dice — perché cerco di campare facendo del bene». I genitori, allora, si rivolgono ai parlamenti locali. Chiedono una legge che impedisca al primo che passa di impadronirsi delle loro memorie. E vengono accontentati. Cinque Stati americani (Louisiana, Arizona, Texas, Oklahoma e Florida) s'inventano un nuovo crimine: uso non autorizzato dell'identità di un soldato deceduto. Con pene che arrivano a un anno di reclusione e multe salatissime. Il reato presto potrebbe diventare federale, un progetto di legge in tal senso è già stato presentato al Congresso. Ma per i parenti delle vittime è una vittoria di pirro. Tanta pubblicità inaspettata giova al pacifista- imprenditore. Le vendite si impennano insieme al risentimento di molti americani verso una guerra «sbagliata». Nel 2005 una maglietta costava dieci dollari, oggi il prezzo è più che raddoppiato. Frazier fiuta l'affare e lo cavalca. Il suo prodotto diventa una battaglia di principio. «Un sacco di soldati — dice al Los Angeles Times — sono morti pensando di combattere per i valori americani come la democrazia e la libertà d'espressione. E ora i loro cari vogliono toglierci quei diritti». Un colpo da maestro che coglie nel segno perché sposta il terreno dello scontro sul piano politico. Il messaggio comincia a passare sui blog liberal: «Le nostre magliette anti-guerra sono illegali » è la pubblicità lanciata dal fondatore di CarryaBigSticker. com. E poi la ciliegina sulla torta: per ogni t-shirt venduta un dollaro viene donato a un'associazione di beneficenza per aiutare le famiglie dei caduti. «La mia sensazione — dice al Los Angeles Times Jennifer Urban, docente di legge alla University of Southern California — è che Frazier stia usando i nomi per fare una dichiarazione politica e questo ricade sotto la protezione del primo emendamento della Costituzione, quello che garantisce, a ragione, alcuni diritti fondamentali, tra cui la libertà di espressione. Capisco che possa essere triste per le famiglie dei caduti».
Per ora, tra l'altro, Frazier non si è arricchito. Nel 2006 ha denunciato al fisco 23,500 dollari di entrate lorde. Quest'anno i guadagni saranno maggiori ma non certo milionari. «Non voglio mancare di rispetto alle famiglie — dice —. Ma l'uso dei nomi è una delle armi più potenti del movimento pacifista, non possono togliercela. Smetteremo di vendere le magliette quando l'ultimo soldato sarà tornato a casa». Intanto dall'Iraq i militari non ringraziano. Anzi. Accendono il computer e scrivono a CarryaBigSticker. com: «In caso di morte vi diffido dall'usare il mio nome». Un'azione preventiva inutile secondo Frazier: «Non ne hanno diritto — dice —. Che succederebbe se cominciassimo a togliere tutti i nomi delle vittime dell'Olocausto dai memoriali?». Lo stesso vale per il muro che, a Washington, ricorda i 58.256 caduti in Vietnam. Ma in quel caso, ribattono gli interessati, non c'è fine di lucro. E che dire, allora, del vignettista Mike Luckovich che, nel 2005, sotto la parola
Why? ha scritto a mano i nomi di 2000 soldati morti in Iraq. A lui hanno dato il premio Pulitzer. E l'Atlanta Journal Constitution ora vende le ristampe. La versione deluxe
costa solo 239,95 dollari.

http://www.informazionecorretta.it/main.php?mediaId=2&sez=120&id=22042

I successi in Iraq, il silenzio della stampa

I successi in Iraq, il silenzio della stampa
e il futuro della dottrina Bush

Testata: Il Foglio
Data: 22 novembre 2007
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri - la redazione
Titolo: «Petraeus ha (ri)liberato l'Iraq e blindato i confini Ora testa le mire dell'Iran - Le luci di Baghdad - La dottrina Giuliani è la dottrina Bush al fulmicotone ?»


Dal FOGLIO del 22 novembre 2007, un articolo di Daniele Raineri sulla situazione in Iraq:

Roma. David H. Petraeus, comandante dei soldati americani nel nuovo Iraq, si è lasciato sfuggire un passaggio eccezionale nell’intervista concessa al Wall Street Journal due giorni fa: “Abbiamo una formula per stimare quanti combattenti stranieri arrivano ogni mese. Pensiamo che ci sia stata una riduzione di circa un terzo, forse anche di più, ma è un dato che otteniamo per approssimazione basandoci sul numero degli attacchi suicidi, che spesso sono opera di stranieri. La nostra intelligence dice che c’è una diminuzione nel loro flusso”. Meno arrivi da fuori, meno attentati, meno stragi di iracheni. La formula candida del generale spiega in un colpo solo quattro anni interi di guerra in Iraq, tagliando fuori le discussioni – che pure in Italia ci sono state e hanno occupato pagine di giornali – sulla “resistenza irachena” e su da che parte fosse più accettabile pendere, se da quella dei marine o da quella dei tagliatori di teste. Al Qaida è un’organizzazione senza stato che, dopo l’intervento militare della Coalizione contro Saddam Hussein nel 2003, ha trasformato l’Iraq nel suo campo di tiro. Ogni autobomba è stata un messaggio ideologico e un successo di immagine, pagato molto più caro dagli iracheni che non dagli americani. “Ora i sunniti in Iraq guardano ad al Qaida per quello che è, un movimento ultraestremista in stile talebano – dice Petraeus – e gli hanno voltato le spalle”. Tra i fattori che hanno contribuito a indebolire i terroristi il comandante cita anche accordi taciti con la Siria. Prima dalla frontiera con l’Iraq i volontari passavano indisturbati. “Ora è molto più dura per un maschio in età militare atterrare all’aeroporto di Damasco con in tasca soltanto il biglietto di andata”.
Il secondo passaggio importante dell’intervista è quando il generale racconta le promesse fatte ad alto livello dal governo di Teheran a quello di Baghdad sulla questione delle forniture di armi, denaro e addestramento alle milizie. Promesse che confermano esplicitamente la regia e il controllo degli iraniani dietro a una parte delle violenze in Iraq. “Ci sono state parole inequivocabili sull’appoggio esterno alle milizie, che cesserà. Noi abbiamo qualche dubbio. Stiamo aspettando, francamente, di vederne le prove”. Nella versione di Petraeus è stata la ferocia cieca di al Qaida a provocare l’altro lato del problema iracheno: gli squadroni della morte sciiti. “Certamente ha innescato violenze etnico-settarie orribili e ha dato un pretesto alle milizie estremiste di parte sciita. Ma da quando la prima minaccia è stata rimossa – ma ha una capacità di rigenerarsi con cui dobbiamo misurarci – sta venendo meno anche il sostegno alle milizie estremiste, perché si tratta fondamentalmente di gang, criminali violenti, emotivi, rozzi e armati. La riduzione di questa minaccia è significativa, anche se c’è ancora ”.
Petraeus, che sa che ogni sua parola avrà un impatto politico sulla data di rientro delle truppe a Washington, è cauto: “Il progresso si accumula con il tempo. Non c’è un interruttore della luce. La situazione irachena non scatta da cattiva a buona. Passa da cattiva a meno cattiva&rdquo Il generale in congedo Robert Scales, ex comandante dell’Army War College, è invece libero di parlare con meno cautele. Appena tornato dall’Iraq, dove è andato a controllare a che punto è il piano di Petraeus, dice che “in questa guerra potremmo presto raggiungere il ‘punto di culmine’”. Il punto di culmine è quando il vantaggio passa da una parte all’altra in modo così netto che il finale diventa irreversibile. Il perdente può ancora infliggere perdite, ma ha perso ogni possibilità di vittoria. “Come fu la battaglia delle Midway contro i giapponesi, o quelle di El Alamein e Stalingrado contro i nazisti o Gettysburg nella Guerra civile americana. La sola questione – dice Scales – diventa quanto ancora durerà la guerra e quale sarà il conto finale del macellaio”. Il generale dice che il punto di culmine è un fatto psicologico, non fisico. “Tutti i comandanti con cui ho parlato a Baghdad mi hanno detto che c’è stato un grande cambio di umore rispetto a febbraio, quando Petraeus annunciò che avrebbero combattuto il nemico riprendendosi la capitale dalle mani di al Qaida”. Il piano consisteva nello spingere i soldati fuori da basi enormi e relativamente sicure per sparpagliarli tra i quartieri più violenti. La presenza di questi avamposti temerari funzionò, attrasse gli abitanti e li incoraggiò a passare informazioni sul nemico. Per vincere la battaglia di Baghdad, Petraeus allargò il perimetro di sicurezza al di fuori della capitale. A maggio dispose le truppe in quattro “cinture” concentriche attorno alla città. I suoi soldati riuscirono a sottrarre i paesotti satellite e la periferia all’influenza di al Qaida, e a strozzare così il passaggio di rifornimenti: compresa “la via delle autobombe”, che da officine esterne faceva arrivare i mezzi fino nel cuore di Baghdad. Per Scales, uno dei momenti decisivi fu giugno. “Il nemico fece un errore. Sentendo di perdere a Baghdad, si spostò a Baquba”, che la propaganda zarqawista indicava come “la capitale dello stato islamico dell’Iraq”. Era l’ultima occasione di mantenere i collegamenti con la capitale. Gli americani risposero con l’operazione Arrowhead Ripper. Alla fine di luglio, l’arroccamento a Baquba si rivelò un errore strategico: al Qaida fu costretta alla fuga, senza più nascondigli e appoggio popolare, e con molti dei suoi leader catturati o uccisi. Negli spazi aperti dei deserti del nord, come dimostra l’ottimo bilancio di ottobre, i combattenti di al Qaida sono diventati facili bersagli per le incursioni delle Forze speciali. Il punto di culmine, mette in guardia Scales, non è stato però ancora raggiunto sul piano politico. “Ci vorrebbe la stessa urgenza di cui sono stati capaci i generali Petraeus e Ray Odierno per riunire la nazione e tirarla indietro dal bordo dell’annientamento”. Persino Repubblica Il problema politico è lontano dalla soluzione. Petraeus si dice scontento, perché il governo sciita ancora non si occupa a tempo pieno della sicurezza nelle zone sunnite e per ora non concede un’amnistia generale agli ex funzionari del partito Baath, che permetterebbe loro di tornare a lavorare in ruoli pubblici. Anche i giornali liberal americani si accorgono degli spettacolari miglioramenti in corso nel paese. Anche se alcuni con un certo ritardo. In fondo, ogni autobomba che esplode in Iraq è un colpo ben assestato contro la politica estera di Bush. Ieri Repubblica ha tradotto un reportage del giornale liberal per eccellenza, il New York Times, che racconta una Baghdad dove – dall’arrivo di Petraeus, dieci mesi fa – la situazione della sicurezza è completamente cambiata in meglio. Però il quotidiano di Largo Fochetti dimentica di tradurre un paio di passaggi importanti. Rimediamo noi: “Per la prima volta in due anni, la gente si muove libera per la maggior parte della città. Dopo più di cinquanta interviste fatte in tutta Baghdad, diventa chiaro che, anche se ci sono ancora zone interdette, gli iracheni fanno la spola tra aree sciite e aree sunnite per lavoro, shopping o per andare a scuola, qualcuno anche quando viene buio. Nei quartieri più stabili di Baghdad le donne laiche vestono come piace a loro. Le bande che accompagnano i matrimoni suonano di nuovo in pubblico e in un pugno di negozi di liquori una volta chiusi i clienti fanno la fila fregandosene collettivamente dei vigilantes dell’esercito del Mahdi”. Eppure fino a poco tempo fa il corrispondente americano di Repubblica, Vittorio Zucconi, definiva il piano Petraeus così: “Lasciare che le tribù arabe si scannino tra loro”; il rapporto del generale davanti al Congresso “un intervento di make up”, e l’arrivo di Bush nella provincia pacificata di al Anbar “un atterraggio in mezzo al deserto”.

Un editoriale sul silenzio della stampa sui progressi realizzati dal generale Petraeus:

Le luci dei razzi illuminanti su Baghdad le abbiamo viste. La luce in fondo al tunnel facciamo finta di non vederla. Diciamo che Baghdad in questi anni ha fatto notizia. Guerra vinta. Regime abbattuto. Saccheggi. Disordine. Carneficina terrorista. Fosse comuni. Vittime civili e militari. Disperato tentativo di risalita con i mezzi della politica democratica in un paese in cui era totalmente sconosciuta. Elezioni e costituzione sotto le bombe. Sciiti e sunniti e curdi. Violenze settarie, grandi attentati ed elementi di guerra civile. Rapimenti e decapitazioni seriali. Torture e commissioni d’inchiesta del Pentagono. Pacifisti nelle strade del mondo. Coscienze inquiete per ogni dove. Crisi all’Onu dove Annan si scatenava contro la guerra illegale. Molto cinema d’impegno e denuncia. Molto giornalismo televisivo pashmina e denuncia. Molte passeggiate nel disastro malinconico di grandi inviati di guerra. Molte mozioni nei Parlamenti europei: mandiamo le truppe, teniamo le truppe, ritiriamo le truppe. Molto dolore per i costi umani. Molta indifferenza per chi ci ha fatto vedere come muore un italiano. Molto accoramento per ragazze di ritorno in djellaba e con una copia fresca del Corano per lanciare appelli al valoroso popolo iracheno sotto la protezione dei riscatti pagati dai servizi segreti occidentali via ong (organizzazioni non governative). Mobilitazione jihadista dispiegata. Grandi catture. Impiccagioni e processi. Molto horror show. Discussioni in punta di storia e di diritto su termini come resistenti, insorti, banditi, tagliagole, impaludamento, Vietnam. Scontri diplomatici all’arma bianca con il Quai d’Orsay di Chirac e Villepin. La corrosione del mito di Tony Blair a Londra. Raffinate ricostruzioni delle trame della lobby ebraica neoconservatrice impegnata a dirottare la politica estera americana nell’interesse di Israele. Grande crisi della presidenza americana impiccata alla sua straordinaria impresa politico-militare. Incandescenti divisioni di principio nell’establishment intellettuale di qua e di là dall’Atlantico. Ma ora non fa notizia questo “accomodamento senza riconciliazione”, questa “breccia nel muro del pessimismo” di cui parla Tom Friedman sul New York Times, questa buona notizia che sarebbe disonesto ignorare o esagerare portata dal surge di Bush e Petraeus, questo equilibrio trovato nel controllo del territorio, nella sicurezza, che è la premessa per nuovi passi avanti diplomatici e politici nel cuore tormentato della politica mondiale dopo l’11 settembre. In America se ne parla, da noi no. Bernardo Valli non passeggia più a Baghdad. Vittorio Zucconi non solfeggia più a Washington. E i direttori dei tg non sanno come offrire immagini di pacificazione purtroppo meno sanguinose della macelleria d’un tempo. Forza Capuozzo!

Infine, un'intervista ai consiglieri di politica estera di Rudolph Giuliani, candidato alla primarie repubblicane

Washington. Secondo i sondaggi, l’ex sindaco di New York, Rudy Giuliani, si conferma candidato repubblicano di punta alle presidenziali del 2008. I dubbi sul fatto che le posizioni liberal di Giuliani su aborto, diritti dei gay e controllo sulle armi, come pure la sua vita coniugale (è al secondo divorzio), potessero costargli il consenso dei “values voters” si sono dissolti dopo il recente appoggio assicuratogli da Pat Robertson, fondatore della Christian Coalition. In realtà, la gran parte dei conservatori, tra cui il direttore del Weekly Standard, William Kristol, e il commentatore del Washington Post Charles Krauthammer, ritiene che le diversità di vedute sui temi sociali “sbiadiscano sino all’irrilevanza” se rapportate all’importanza della lotta al terrorismo. Il Foglio ha intervistato tre consiglieri dello staff per la politica estera di Giuliani per comprendere che cosa la sua eventuale vittoria potrebbe significare. Martin Kramer è senior fellow dell’Olin Institute di Harvard, Wexler- Fromer fellow al Washington Institute for Near East Policy e senior fellow allo Shalem Center di Gerusalemme; Norman Podhoretz è editor-at-large della rivista Commentary e autore di “World War IV: The Long Struggle Against Islamofascism” (Doubleday Books 2007, pubblicato anche dal Foglio); Michael Rubin è resident scholar all’American Enterprise Institute, direttore della rivista Middle East Quarterly ed ex consigliere politico del Pentagono per la Coalition Provisional Authority in Iraq dal 2002 al 2004. La successione a W. “Credo che la dottrina Bush rappresenti l’unica strategia praticabile per combattere la lunga guerra contro il fascismo islamico – dice Podhoretz – Spero e conto anche sul fatto che, una volta eletto presidente, Giuliani riprenda il discorso da dove Bush lo avrà lasciato”. Di avviso leggermente diverso Rubin: “L’importante è che non si crei un divario tra la retorica della Casa Bianca e le reali strategie politiche. Nella veste di sindaco, Giuliani ha ripulito New York, mostrando a tutti di saper tradurre i discorsi in fatti concreti. E’ con questo spirito che potremo ridare credibilità agli Stati Uniti. Personalmente, tuttavia, credo che la politica americana debba ancora dare la priorità alla libertà, ai diritti e alla lotta contro il terrorismo e l’ideologia islamista. Ciò detto, abbiamo appreso che le elezioni da sole non sono sufficienti, specie quando la società non è ancora pronta ad accoglierle”. Kramer, che si definisce uno “scettico della democratizzazione”, conviene con Rubin che “le elezioni non sono sufficienti. Mi è capitato di dissentire dal presidente Bush. Non credo che potrò mai dissentire da Giuliani: basta leggere il suo recente articolo su Foreign Affairs per convincersi che lui stesso ritiene sia pericoloso precipitarsi alle elezioni in un contesto dove prevale l’insicurezza”. Le elezioni palestinesi, sostiene Kramer, sono l’emblema di un processo che ha prodotto un risultato infelice: la candidatura e la vittoria delle milizie armate di Hamas: “La società civile nei paesi mediorientali è assai debole e poco ramificata. Senza una società civile, si può contare soltanto sui paladini dei ‘poveri’, ossia i gruppi islamisti. I quali si prefiggono come obiettivo primario la rimozione dell’influenza politica, militare e culturale degli Stati Uniti dal medio oriente”. “Consiglierei al presidente Giuliani – spiega Rubin – di elaborare le sue strategie sulla base di ciò che i leader mediorientali fanno e non soltanto su quel che promettono ai diplomatici americani. Ciò significa elaborare una strategia politica concreta ed efficace, che costringa la leadership iraniana a porre fine al programma nucleare, e affrontare una realtà innegabile: sia Fatah sia Hamas spalleggiano il terrorismo”. Kramer, ex allievo di Bernard Lewis, aggiunge: “Al fine di sostenere in futuro, per quanto possibile, la dottrina Bush, è essenziale mettere a frutto le lezioni di questi ultimi anni: la via per l’inferno è lastricata di cattive analogie. Il medio oriente non è l’Europa. L’Iraq non è la Germania. L’Afghanistan non è il Giappone né il Vietnam. Dobbiamo liberarci dalle analogie, che negli ultimi anni sono state usate in modo troppo disinvolto, e iniziare a basarci sulla conoscenza reale e l’esperienza diretta, è ciò che stiamo facendo in Iraq e altrove. Credo che Giuliani sia l’emblema di tale ‘prospettiva realistica’”. Le differenze con Hillary Stando ai sondaggi, Giuliani appare destinato a fronteggiare la principale candidata alla Casa Bianca del Partito democratico, la senatrice Hillary Rodham Clinton, la quale ha abbozzato il suo programma di politica estera in un articolo pubblicato da Foreign Affairs duramente criticato da Kramer sul tema del conflitto e del negoziato israelo- arabo-palestinese. “Hillary Clinton scrive: ‘Che gli Stati Uniti compiano progressi e riescano a strappare un accordo definitivo o no, il coinvolgimento costante dell’America può attenuare il livello di violenza e restituirci una certa credibilità nella regione’. Francamente, mi sembra un approccio assai singolare alla questione mediorientale. Per quale motivo, mi chiedo, ci si dovrebbe ostinarsi a fare qualcosa che non sta dando alcun risultato? E per quale ragione gli altri dovrebbero aiutarti e seguirti, se ammetti di essere intenzionato a rimanere coinvolto a prescindere dalle loro mosse? Ecco cosa intendo per ‘iperattivismo’. L’attivismo non è qualcosa di negativo, purché si scorga un’opportunità, si riscontri una reazione delle parti in causa e si noti che, elargendo capitale politico, si ottiene un ritorno. E’ avventato promettere un ‘coinvolgimento costante’ quando, di fatto, esso non porta da nessuna parte”. Kramer è convinto “dell’esatto contrario: il fatto di essere costantemente coinvolti nel tentativo di risolvere il problema senza approdare ad alcun risultato erode la nostra credibilità. Le parole di Hillary Clinton mi sembrano decisamente inopportune”. Podhoretz è ancor più abrasivo e, in particolare, irride alla decisione della senatrice Clinton di votare a favore dell’inclusione delle Guardie della rivoluzione iraniana tra le organizzazioni terroristiche, salvo poi fare un passo indietro proponendo una legge che impedisca a Bush di attaccare l’Iran senza l’approvazione del Congresso. “E’ la perfetta copia di John Kerry. Prima vota a favore, poi contro, poi ancora a favore e ancora una volta contro. A differenza di Hillary, Giuliani comprende il rischio di quella che io chiamo ‘la Quarta guerra mondiale’ e si è sempre detto propenso a lanciare l’offensiva contro i fascisti islamici”. Rubin aggiunge: “Giuliani conosce meglio la regione mediorientale e comprende le minacce che l’estremismo islamista pone all’occidente in generale e agli Stati Uniti in particolare. La fiducia della senatrice Clinton sul fatto che le promesse verranno mantenute è già stata messa alla prova in passato. Tra il 2000 e il 2005, all’apice del cosiddetto riformismo iraniano, gli scambi commerciali tra i paesi dell’Unione europea e la Repubblica islamica sono quasi triplicati. Ma la moneta forte non è servita quasi per nulla a moderare la leadership iraniana. Al contrario, ha contribuito a foraggiare il programma nucleare e la produzione di missili balistici. Tutto ciò che l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) ha potuto appurare, alla luce della ‘shuttle diplomacy’ di Mohamed ElBa- per l’arricchimento dell’uranio. Limitarsi a parlare con i diplomatici iraniani, che, per quanto onesti, sono esclusi dai circoli decisionali della Guida suprema e delle Guardie della rivoluzione, non porterà alcun frutto”. Podhoretz confida in Giuliani perché “se noi occidentali vogliamo debellare la minaccia che il fascismo islamico pone nei confronti della nostra civiltà, dobbiamo comprendere la natura e la portata di tale minaccia, e lanciare un’offensiva contro di essa. Ciò implica il coraggio di intraprendere un’azione preventiva in determinate circostanze, e avvalersi di più strumenti, militari e no, per ‘bonificare il pantano’ in cui il fascismo islamico prospera, attraverso una definitiva democratizzazione del medio oriente. Giuliani comprende tutto ciò meglio di qualsiasi altro candidato e più di qualsiasi altro ha le doti caratteriali che fanno di un uomo anche un grande leader in tempo di guerra: coraggio, determinazione e ottimismo”. Kramer concorda: “Giuliani capisce che in questo momento ci troviamo nel mezzo, o forse addirittura allo stadio iniziale, di quella che egli chiama ‘la guerra scatenata dai terroristi contro l’America’. Credo che questa consapevolezza sia quasi del tutto assente in molti degli altri candidati alla carica presidenziale. Per questo è importante ricordare al popolo americano che, recandosi alle urne, non sceglieranno soltanto un presidente, ma il loro comandante in capo”. La minaccia principale La presenza al fianco di Giuliani di Rubin, Podhoretz e Kramer ha messo i liberal in allarme: Rudy avrà una strategia di politica estera che si potrebbe definire come “la dottrina Bush al fulmicotone”? Nuove iniziative militari in vista? Podhoretz risponde: “Io stesso, come il presidente Bush, vado ripetendo da tempo che, per vincere questa battaglia, dovremo avvalerci, laddove possibile, di strumenti di potere non militari (politici, economici e diplomatici), ricorrendo alla forza militare solo se necessario”. Ricordando i molti anni di esperienza diretta in medio oriente, Rubin afferma che “l’islam è una nobile religione, al cui interno però si annidano estremisti che sfruttano la ricchezza di petrolio per promuovere un’ideologia radicale e grondante odio. Giuliani capisce che, sebbene il 90 per cento dei mediorientali chieda forse soltanto di poter sfamare i familiari e garantire le migliori opportunità possibili ai propri figli, ci sono anche uomini e donne accecati dall’ostilità, che tentano di scardinare i diritti su cui la società occidentale fonda la propria libertà e, a tal fine, abbracciano il terrorismo e inseguono il progetto delle armi di distruzione di massa”. Kramer ricorda infine un’affermazione di Giuliani: “‘L’Iran non riuscirà a dotarsi dell’arma nucleare’. Su questo, è stato inequivocabile. Credo che niente possa spingere gli iraniani a scegliere la via della diplomazia meglio della consapevolezza che Rudy Giuliani sarà lì, pronto a sfidarli”


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Gli 007 avevano avvisato dei rischi ma il governo li ha voluti ignorare

«Gli 007 avevano avvisato dei rischi ma il governo li ha voluti ignorare» di TOMMASO MONTESANO
«Quello che sta accadendo in AfghanistanROMA era purtroppo prevedibile. Ma il governo, per non perdere l'appoggio della sinistra radicale, necessario per la sua sopravvivenza, è costretto a negare l'evidenza». Ovvero che a Kabul è in atto un'escalation che per Sergio De Gregorio, presidente della commissione Difesa del Senato, prelude «all'irachizzazione del conflitto». Scenario di fronte al quale l'assetto del nostro contingente è «inadeguato dal punto di vista dei sistemi d'arma e da quello della composizione numerica». Senatore, l'attacco di ieri poteva essere sventato? «Una serie di analisi dei servizi di sicurezza europei e americani, e uno studio di un autorevole istituto britannico, ci avevano avvertiti del rischio di una "irachizzazione" del conflitto afghano». Sarebbe a dire? «Primo: ci avevano messo in guardia sul fatto che le armate talebane erano state superate nella capacità offensiva da cellule integraliste islamiche che fanno capo direttamente ad Al Qaeda. Secondo: che potenze straniere, Iran in testa, avevano provveduto ad armare sia i talebani che le cellule qaediste per poterli utilizzare come strumento di minaccia verso l'Occidente nel momento della trattativa sul nucleare. Terzo: che lo scenario di tipo iracheno si stava spostando in Afghanistan». I report sono stati portati all'attenzione del governo? «Dopo queste segnalazioni, il sottoscritto ha cominciato a parlare in commissione Difesa di preoccupazione per l'irachizzazione del conflitto». E Palazzo Chigi cosa ha deciso? «Ha risposto più volte spiegando che la situazione era sì critica e preoccupante, ma non c'era il rischio di scivolare verso uno scenario di tipo iracheno. L'ultima volta è successo martedì scorso, quando un sottosegretario ha riferito per conto del ministro dopo l'aggressione, a suon di razzi, al nostro aeroporto di Herat. Eravamo attoniti». Perché? «Perché siamo sprovvisti, tra l'altro, di uno strumento di risposta rapida che si chiama "Sky shields", un sistema elettronico-radaristico con potenza di fuoco che individua le minacce, le localizza e risponde prima che i razzi arrivino al suolo. Molte altre cose, però, potrebbero esserci utili». Ad esempio? «Voglio dire che il problema non è comprare "Sky shields", ma rafforzare i sistemi d'arma in senso offensivo e il contingente dal punto di vista numerico, che oltre ai 250 uomini in più in occasione dell'assunzione del comando a Kabul, dovrebbe prevedere un incremento di altre 500 unità. Non è che andiamo in guerra, sia chiaro, ma è la guerra che sta cercando noi e il nostro contingente deve essere pronto ad affrontare uno scenario simile. Peccato che la sinistra radicale, l'ultima volta la settimana scorsa in commissione, chieda sempre di ripensare la missione». Gli stati maggiori condividono la necessità di rafforzare il contingente? «Attualmente si dicono capaci di contrastare le minacce, ma il problema è il basso profilo che la politica sta chiedendo alle Forze armate. Alzare il profilo della potenza militare significa essere autorizzati a rispondere, quindi a combattere. Le Forze armate sono vittime di una politica per la quale anche pronunciare la parola "guerra" rappresenta un problema. Siamo stati costretti a cambiare perfino il linguaggio delle Forze armate. Guai a pronunciare la parola "combat", ad esempio». Per evitare imbarazzi a sinistra? «È evidente: per evitare di cadere in Parlamento sull'Afghanistan. Oltretutto il governo non rispetta gli impegni. Nell'allungare i tempi della missione da sei mesi a un anno, abbiamo imposto all'esecutivo di riferire in Parlamento. In genere, però, il governo evita di affrontare dibattiti che potrebbero essere pericolosi per la tenuta della maggioranza. Adesso, però, bisogna uscire dall'equivoco e affrontare un dibattito sul futuro della missione: dobbiamo chiedere o una riunione congiunta delle commissioni Esteri o Difesa, o discuterne in aula». A gennaio il Parlamento dovrà pronunciarsi sul rifinanziamento. Che succederà? «Il governo si dilanierà. Avrà il cappio al collo della sinistra radicale, che chiede il pagamento di prezzi ideologici di fronte a questioni nelle quali invece c'è bisogno di mostrare i muscoli». SERGIO DE GREGORIO p Una serie di analisi dei servizi di sicurezza europei e americani, e uno studio di un autorevole istituto britannico, ci avevano avvertiti del rischio di una "irachizzazione" del conflitto afghano. Palazzo Chigi ha risposto più volte spiegando che la situazione era sì critica e preoccupante, ma non c'era il rischio di scivolare verso uno scenario di tipo iracheno. L'ultima volta è successo martedì scorso
http://www.libero-news.it/libero/LP_showArticle.jsp?edition=25%2F11%2F2007&topic=4921&idarticle=89657261

Così muore un soldato italiano - Daniele Paladini, maresciallo capo del 2° reggimento pontieri dell'Esercito, rimasto ucciso nell'attentato kamikaze

Così muore un soldato italiano di RENATO FARINA
Aveva appena sentito ridere i bambini. Si inaugurava un ponte. E alle inaugurazioni c'è sempre molta vita, e circolano dolcetti. I ponti poi sono belli. Il maresciallo Paladini ha una figlioletta dell'età di quei bambini; stessi occhi meridionali, verdi come i suoi. Paladini sente uno strano scarpinare, si gira e dal greto del fiume vede salire un uomo, un ragazzo sale con rabbia. Ha fretta di ammazzare e di spaparanzarsi in Paradiso con 73 vergini, questo maledetto figlio di Allah, e maledetto chi lo ha mandato lì. Il maresciallo gli si butta addosso, riesce a placcarlo un attimo prima che salti tra i bambini. Cerca di bloccargli le mani. Di impedire che tiri quella cordicella, che prema quel tasto, insomma ti tengo le mani, stai buono stronzo. Il suo capitano e altri due commilitoni fanno scudo come possono con i giubbotti antiproiettile. Il kamikaze porta a termine il suo lavoro di amante della morte, di assassino di bambini. Ne muoiono quattro, poveri fanciulli che ridevano. Le loro sorelle grandi, senza velo, qualche lavorante afgano. Nove morti. E un soldato italiano caduto. Si capisce tutto dell'Afghani stan, da questo fatto. Chi siano i nemici e dove stia l'umanità. I talebani-alqaedisti odiano chiunque non si sottometta al potere loro e del loro islam. I bambini si mescolano a chi ha costruito un ponte e vorrebbe tirar su quelle piccole essenziali cose che servono a vivere bene, a incontrare la gente, ad andare più in fretta e più sicuri dal campo alle case: niente da fare, sei morto. Stritolatori di bambini
E questi stritolatori di bambini e di soldati che costruiscono ponti al loro futuro sarebbero dei resistenti? Sarebbero gente perbene da lasciar scorrazzare? Ci piacerebbe sentire il parere dei Gino Strada per i quali bisognava lasciarli stare, che sarà mai il burqa e la lapidazione delle parrucchiere, l'asilo fornito a Bin Laden? Ah, se solo non ci fossero i soldati italiani sarebbe una pace meravigliosa. È pace dove comandano i mandanti dei kamikaze? Lascereste in mano un popolo a chi sbrindella i bambini a scopo educativo? Li uccide per farli riflettere? Certo, possiamo decidere tranquillamente di andarcene dall'Afghanistan, dicendo che non vale la pena morire per Ka- bul. Sarebbe questa miseria umana il pacifismo? Lasciare le creature in balìa degli sgozzatori in nome di Allah? Si può essere neutrali in questa situazione? Il Mullah Travaglio
Eppure in Italia ci governa una coalizione dove buona parte ritiene che si debba lasciare libero campo al dominio talebano, essendo questa impresa militare loro avversa una roba della Nato, dunque americana, dunque cattiva. Memorabile al riguardo una lettera scritta da Marco Travaglio ad Annozero di Santoro, il 15 aprile scorso. Travaglio si firmava con invidiabile capacità di immedesimazione Mullah Omar, dipingendolo come un simpatico compagno di merendina, inerme e mite gironzolante in moto nei dintorni di Kandahar. Gli faceva dire: «Per me il Corano è una cosa seria». Testuale. Che brava persona. Per indurci a questa conseguenza politicomorale: lasciamolo lavorare sereno. È questa la bella civiltà dominante nella sinistra al potere? Di certo questi sono gli intellettuali di riferimento e la filosofia che giganteggia sull'Unità, da Santoro, tra i no global, nei blog. Ma anche ai vertici delle istituzioni. Davanti all'eroismo semplice di un soldato dilaniato per salvare più bambini che poteva, Fausto Bertinotti osa predicare ragioni di disimpegno. Come interpretare se no questa frase da retore della disfatta? «Continuo a pensare che l'Ue in primo luogo, l'Italia e le forze impegnate nella missione in Afghanistan siano sempre più indotte a dover fare una riflessione strategica sul fine che con quella missione si persegue e sul come esso vada perseguito». Fare ponti e difendere i bambini come fine di una missione non basta? Per fare i ponti e difendere i bambini qualche volta è necessario dar guerra ai terroristi, poco caro Bertinotti. O vogliamo chiamarli "resisten ti" come hanno sostenuto gip e giudici di Milano? Addestrati dalle nostre parti
Non dimentichiamo che kamikaze operanti in Afghanistan sono stati addestrati dalle nostre parti. Poche settimane fa un'operazione della Digos, dopo una brillante indagine guidata dal procuratore Armando Spataro, ha portato all'arresto tra Milano e Parma degli arruolatori di pseudomartiri. Ecco su questo bisognerebbe riflettere, presidente Bertinotti. Bisognerebbe dire soltanto, come l'ottimo Massimo D'Alema: «Atto ingiustificabile, si capisce perché sono lì i nostri». E una volta di più ci paiono appropriate le parole del ministro della Difesa Arturo Parisi: «È un attentato contro la vita, contro la vita innocente dei bambini, contro la ripresa della vita in un Paese segnato profondamente dalla morte, dalla cultura di morte che ha guidato il gesto dell'attentatore». Se quella cultura di morte vince in quel remoto Paese poi si gonfia, conquista, domina, si abbatte su di noi e i nostri bambini. Finché però ci sono persone come quel soldato, il maresciallo Paladini, pare impossibile possano vincere i terroristi e le loro quinte colonne tra noi, quelli cioè del meglio-islamiciche-morti, o quei miopi del lasciamo-che-si-ammazzinotra-loro-bambini-compresi. Mi vengono in mente, davanti alla foto così italiana di Paladini, i pompieri di New York caduti sotto le Torri, accorsi per aiutare i loro fratelli uomini, quando potevano starsene a casa e mettersi in malattia. Ma era impossibile, c'è qualcosa di più forte della tranquillità, del salvarsi la ghirba. Lì sta la nostra speranza.
Foto: EROE Daniele Paladini in alta uniforme, il maresciallo capo del 2° reggimento pontieri dell'Esercito, rimasto ucciso nell'attentato kamikaze Ansa
http://www.libero-news.it/libero/LP_showArticle.jsp?edition=25%2F11%2F2007&topic=4896&idarticle=89656638

la Casa delle Libertà commemora i caduti di Nassyria

Domenica la Casa delle Libertà commemora i caduti di Nassyria
di redazione
Prato, 9 novembre 2007 - Sono trascorsi già quattro anni da quel 12 novembre 2003 quando l'esplosione di un autocarro davanti alla base italiana di Nassirya causò la morte di 19 connazionali, tra militari e civili, impegnati in Afganistan nell'operazione Antica Babilonia.
Domenica 11 novembre alle ore 10 presso il monumento dei caduti in piazza delle Carceri le cariche dei partiti pratesi della Casa della Libertà, Forza Italia, Alleanza Nazionale, Lega Nord, Udc e Democrazia Cristiana per le eautonomie renderanno omaggio ai caduti deponendo una corona di fiori e sarà eseguito il silenzio di ordinanza. L'attentato di Nassirya entrò nelle case degli italiani la mattina del 12 novembre provocando in tutto il Paese un senso di commozione e di unione nei confronti delle forze armate e di quelle famiglie che in quella strage hanno perso una persona cara.
http://www.pratoblog.it/content/view/11515/389/

FOLGORATI SULLA VIA DI DAMASCO

FOLGORATI SULLA VIA DI DAMASCO

di Gianandrea Gaiani

La politica estera italiana non ha mai brillato per coraggio e chiarezza di posizioni e negli ultimi anni, caratterizzati da consistenti e numerosi impegni militari, ha trascinato nel “mare dell’ambiguità” anche la nostra politica di Difesa e Sicurezza. Gli avvenimenti delle ultime settimane sembrano rafforzare ulteriormente questa tendenza con prese di posizione tese a favorire movimenti e regimi dispotici e terroristici. In Afghanistan non vogliamo impiegare i nostri soldati in operazioni offensive ma siamo i primi a contestare la NATO e gli USA per le vittime civili che purtroppo caratterizzano ogni guerra e soprattutto quei conflitti nei quali i miliziani provocano e cercano di provocare lutti tra la popolazione. Il risultato è che gli anglo-americani ci considerano degli ipocriti, non si fidano di un alleato che pur avendo (finalmente) ricevuto armi pesanti non va a stanare i talebani a poche miglia dalle sue basi ma lascia il compito agli alleati anglo-americani (che con i canadesi hanno avuto oltre cento caduti dall’inizio dell’anno) per poi criticarne i “metodi violenti”.

La conseguenza, come raccontiamo in questo numero di AD, è che gli alleati hanno ridotto il flusso di informazioni d’intelligence dirette al nostro comando a Herat considerandoci più un peso che un contributo allo sforzo bellico. Del resto quanto la credibilità italiana sia ridotta ai minimi termini lo si è visto chiaramente al vertice di Roma sulla giustizia in Afghanistan al quale il segretario di stato USA, Condoleeza Rice, non si è neppure fatta vedere e dove il segretario generale della NATO, De Hoop Scheffer, ha detto chiaramente che i programmi di ricostruzione non sono attuabili se prima non si sconfiggono sul campo i talebani. Sempre che l'allarme per i danni collaterali non si riveli una bufala, quanto meno per l'entità reale delle vittime civili. A questo proposito il comandante di ISAF, il generale Dan McNeil, ha dimostrato come molte stime sulle vittime civili siano enormemente esagerate mentre chi, come l’Italia, chiede meno bombardamenti aerei, dovrebbe essere disponibile a inviare più truppe (in prima linea, non nelle retrovie).

Da notare poi che continua la censura più volte denunciata dal nostro web-magazine nei confronti della stampa che non può visitare il contingente ad Herat ne seguirne le attività. Nulla di stupefacente per un governo che considera i media un fastidio. Il vicepremier Massimo D’Alema lascia a terra dall’aereo di stato (non dalla sua barca!) un giornalista della Stampa perché quel quotidiano ha scritto un articolo che non è piaciuto al ministro. Il vice ministro Vincenzo Visco non risponde alle domande di due giornalisti del Secolo XIX rei di aver realizzato un’inchiesta su di lui che a quanto pare non lo ha entusiasmato. Parisi in compenso non fa distinzioni. Nessun reporter aggregato ai contingenti in Afghanistan o in Libano, indicazioni ai comandanti di evitare contatti con i media, ufficiali addetti stampa ridicolizzati e resi del tutto superflui da direttive che li obbligano a dirottare su Roma i giornalisti che chiedono informazioni sulle attività operative.

A cosa serve un ufficiale addetto stampa ad Herat se non può diffondere informazioni sulle nostre forze ? Cosa avranno mai da nascondere al Ministero della Difesa dal momento che, come ci ripetono ossessivamente, i nostri soldati non attaccano i talebani e il nostro governo critica persino gli alleati che lo fanno ?

Perché nessun comunicato ufficiale della Difesa ci ha informato degli scontri, anche recenti, sostenuti dalle truppe afgane nel settore italiano? O della piena operatività degli elicotteri da attacco Mangusta, degli UAV Predator e dei cingolati Dardo ? in compenso ci continuano a bombardare di notizie su scuole ricostruite e viveri distribuiti. Di figuraccia in figuraccia, tra incompetenza e arroganza, la gestione della politica estera italiana è riuscita a bruciare ogni residuo di credibilità italica anche in Medio Oriente, dove il fatto di detenere il comando di UNIFIL ci dovrebbe imporre un minimo di decenza. I pellegrinaggi di alti esponenti governativi e della maggioranza in Siria (Diliberto, D’Alema e Dini) ha indotto gli israeliani a dubitare della nostra “equivicinanza” e le fonti anonime che avevano accusato D’Alema di aver trovato un accordo con i siriani per garantire il nostro contingente in Libano contro attentati terroristici sono state smentite con toni aspri ma non per questo convincenti.

La credibilità di UNIFIL è andata a farsi friggere soprattutto quando da Roma e dal comando di Naqura ci si è affrettati a smentire ogni responsabilità da parte di Hezbollah per l’attentato contro la colonne di caschi blu spagnoli. Ma se lo sanno anche i bambini che nel Libano del sud non si muove una foglia senza il consenso di Siria e Hezbollah!
Basti pensare che dal settore spagnolo, pochi giorni prima, erano stati lanciati quattro razzi contro Israele. Secondo indiscrezioni israeliane anche gli spagnoli avrebbero raggiunto segretamente un’intesa con Hezbollah per evitare nuovi attentati seguiti a ruota da altri paesi che schierano truppe con UNIFIL. Difficile quindi aspettarsi una reale efficacia militare dai 12.000 caschi blu in Libano e tanto meno che intercettino quei carichi di armi diretti a Hezbollah confermati nei dettagli da un rapporto ONU realizzato in Libano da cinque esperti guidati dal danese Lasse Christensen.

Gli esperti hanno concluso che numerosi passaggi di confine con la Siria vengono utilizzati da trafficanti, terroristi e agenti stranieri. Il rapporto precisa che le forze di sicurezza libanesi non fanno abbastanza per fermare i traffici o sono colluse con i trafficanti e sostiene la necessità di schierare lungo il confine forze di polizia multinazionali. Il Consiglio di Sicurezza discusse l’anno scorso l’invio di un corpo di polizia internazionale a presidiare i 370 chilometri di frontiera siriana, ipotesi poi abbandonata quando Damasco annunciò che lo avrebbe considerato “una aggressione”. E infatti invece di indurre Damasco a collaborare, l’Italia si schiera contro “l’isolamento di Siria e Iran” dimenticando che sono sponsor e fomentatori di tutti i gruppi guerriglieri e terroristici in Medio Oriente: dall’Iraq ad al-Qaeda, da Hezbollah a Hamas.

Lamberto Dini, presidente della commissione Esteri del Senato, è rimasto letteralmente folgorato sulla via di Damasco dichiarando in un’intervista a “Repubblica” che in Siria l’estremismo islamico avanza a causa della mancata restituzione delle alture del Golan da parte di Israele. Secondo Dini, che non esprime una sola critica al regime di Assad e di cose militari evidentemente si intende molto, “non si capisce a cosa serva oggi l'occupazione del Golan. Non certo per assicurarsi una difesa. La Siria non è assolutamente in condizione di attaccare Israele. Non dispone di armamenti tali da far paura a una potenza nucleare come Israele. La Siria non rappresenta una minaccia. E il Golan non serve a Israele.” Per Dini inoltre anche la crisi in Libano è ovviamente determinata da Israele, la Siria non fa filtrare armi verso il Libano, Hezbollah e Hamas sono importanti forze politiche. D’Alema, forse per paura di sfigurare con il senatore che lo precedette alla Farnesina, ha rilasciato un’intervista al “Corriere” nella quale invece di prendere una posizione netta nella guerra civile palestinese tra Fatah e Hamas invita Israele ad "allentare la morsa dell’occupazione e della colonizzazione”. Con questa politica estera l’Italia è già fuori dall’Occidente, anche da quello più moderato.

La fonte e' Analisi Difesa, la rivista mensile diretta dall'autore dell'articolo.

http://www.analisidifesa.it/

mercoledì 28 novembre 2007

Osama bin Laden loda dirottatore dell'11/9

Osama bin Laden loda dirottatore dell'11/9 in nuovo video

Reuters - Mar 11 Set - 16.18
DUBAI (Reuters) - Il capo di Al Qaeda Osama bin Laden ha diffuso oggi un videotape in occasione del sesto anniversario degli attacchi dell'11 settembre 2001 in cui loda uno dei dirottatori descrivendolo come un uomo magnifico.
In un video testamento girato prima di morire, Waleed al-Sheri, il dirottatore vestito con tunica e turbante bianchi, aveva accusato i suoi nemici di essere dei codardi tuonando minaccioso: "Vi prenderemo da di fronte, da dietro, da destra, sinistra da sopra e da sotto".
Nel nuovo video di 47 minuti pubblicato oggi da As-Sahab, divisione media di al Qaeda, si può sentire l'audio della voce di Bin Laden che loda il dirottatore sullo sfondo di un fermo immagine che ritrae il capo dell'organizzazione terroristica.
Funzionari dell'intelligence statunitense ritengono che la voce appartenga veramente a Bin Laden.
"Questo mio discorso consiste di alcune riflessioni sulla volontà di un giovane uomo che ha personalmente attraversato i più grandi pericoli e costituisce una rarità fra gli uomini: uno dei 19 campioni", dice Bin Laden nel preambolo del video.
"Sheri è uno di questi magnifici uomini che è stato influenzato dai versi della rivelazione allo stesso modo in cui fu influenzato il primo musulmano e che ha raccolto (questi versi) che lo hanno condotto dalle piccolezze del mondo alla spaziosità ... dell'aldilà, purificando la sua anima, rendendo forte il suo cuore e illuminando il suo sguardo e le sue percezioni".
Il video non contiene alcuna altra sequenza di immagini, a parte quella di Bin Laden, ma è dotato di sottotitoli in inglese.
Il fermo immagine sembra essere stato preso dall'ultimo video dello sceicco diffuso quattro giorni fa - il primo filmato di bin Laden dopo quasi tre anni.
Esperti di sicurezza sostengono che il video potrebbe rappresentare una nuova chiamata alle armi per un attacco imminente.
Il direttore dei servizi segreti nazionali Michael McConnell ha detto che gli Stati Uniti devono ancora preoccuparsi sia della presenza nel paese di "cellule dormienti", che di quella di "lupi solitari" capaci di fomentarsi da soli e agire.
"Siamo più sicuri di quanto non fossimo in passato ma non siamo completamente sicuri. Dobbiamo mantenere alto lo stato di vigilanza", ha detto McConnell alla Abc.
In passato, è già capitato che la casa di produzione As-Sahab ricordasse gli anniversari dell'attentato alle torri gemelle pubblicando video dei testamenti lasciati dai 19 dirottatori che hanno partecipato all'attacco.
Un sito Internet islamico aveva annunciato ieri che avrebbe mostrato un nuovo video di bin Laden nell'anniversario degli attentati contro gli Stati Uniti.
http://it.notizie.yahoo.com/rtrs/20070911/tts-video-laden2-ca02f96_2.html

Ricordo di un nostro militare italiano da Herat (Afganistan)

battistad
Dal fronte orientale nulla di nuovo. 03/08/2007 22:35

Non leggo tutti i post, dag me ne ha fatto un riassunto.

Questa è la mia storia.

l'11 settembre 2001 ero negli States per un corso di aggiornamento. Scambio culturale, mettiamola in questo modo. Mi avevano dato due giorni di libertà. Quindi, con mia moglie mi sono trasferito a NY. Dopo aver trascorso la prima giornata visitando la Grande Mela, io e mia moglie ci mettemmo daccordo. Avevo un Briefing con Roma. L'avrei raggiunta alle Twin Tower verso le 9 am ora locale. Lei era arrivata assieme ad una sua amica alle 8.30 am. La sua amica aveva un ufficio all' 80° piano. Stavo raggiungendo le torri quando vidi il primo aereo infilarsi nella prima torre... Purtroppo sono riuscito a raggiungere il 30° piano...Da quel momento il mio ricordo è tutto al rallentatore... Le persone che scendevano, calpestando chi inciampava, i pompieri che stavano salendo. Ogni piano si fermavano per fermare il più calmo per aiutare gli altri. Ho visto un paio di persone che cadevano dai piani alti. Sembravano delle foglie spinte con le punte che si dibattevano incontrollate...

Sono stato uno degli ultimi ad uscire prima del collasso. Di mia moglie ho solo una parola: "Missing".

Da quel momento il mio unico compito è quello di beccare questi bastardi... non mi interessa se chinano il culo in qualsiasi direzione... il loro posto è "six feet under"

L’11 settembre è ancora dentro di noi



L’11 settembre è ancora dentro di noi
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L’11 di settembre non è una data da mettere nel cassetto della memoria, da commemorare come un momento della storia passata. E’ storia presente, è un’immagine indelebile di sterminio che su internet viene presentata dai siti islamisti come un modello di comportamento, è una minaccia ripetuta ogni giorno, e non solo da Bin Laden. Siamo molto lontani da poter commemorare l’11 di settembre; le cause del disastro non solo non sono state sradicate, ma sono state combattute in questi sei anni solo da una parte del mondo con convinzione, ovvero dagli Usa e da Israele; da altri, con volenterosa riluttanza, l’Inghilterra e la Polonia; da altri ancora con riluttanza e sfiducia, come dalla Francia, l’Italia, la Spagna e gli altri paesi europei che hanno partecipato sempre con un piede dentro e uno fuori alla coalizione. Poi, c’è un mondo vasto che ha più o meno accettato la continua esistenza del terrorismo islamico deciso a conquistare il mondo. Infine, una parte del globo è apertamente o segretamente connivente.
I risultati sono che gli Usa e Israele sono riusciti, almeno per ora, a tenere il terrorismo (tutto, per quel che riguarda gli Usa, e gran parte per quello che attiene a Israele) fuori dai loro confini, portando l’attacco sul suo terreno, inseguendolo a casa sua, distruggendone almeno in parte le strutture e le leadership. Esso si è così di fatto sbizzarrito dove si riteneva che la minaccia fosse minore, a Madrid, a Londra, in Turchia, nelle Filippine, in Africa...
Di fatto, la mancanza di unità nella comprensione della magnitudine della guerra di reconquista islamica, ci mette oggi nella situazione di dover mettere nella nostra prospettiva, e non nel passato, un altro 11 di settembre molto più aggressivo, prolungato, con lo sbocco fatale della bomba atomica iraniana. Bin Laden e i suoi messaggi sono importanti soltanto se finalmente ne riusciremo a leggere il messaggio originale, quello del 1998 che dichiarava una guerra finale a ebrei e crociati; in questo ambito dobbiamo guardare oggi Al Qaeda, e non più soltanto come sporadico assassino seriale. Al Qaeda marcia, seguita da un immenso codazzo di sostenitori e ammiratori sempre più esaltati e molto prolifici, verso la conquista del mondo occidentale e la sua schiera è ormai intrecciata, in un’impensabile alleanza strategica fra sunniti e sciiti, con quella dei pasdaran della rivoluzione khomeinista iraniana. Essa, da sempre è stata aggressiva nei confronti dell’Occidente, ma la sua visione strategica odierna ha conglomerato con patti di alleanza e decine di incontri a Teheran e a Damasco gli interessi di alleati spuri, la Siria, gli Hezbollah, Hamas che è puramente sunnita, la Jihad Islamica palestinese... la sua geografia si è ampliata tanto da includere nella fase iniziale un disegno di totale dominio del Medio Oriente, forte dei movimenti estremisti che minano alle fondamenta i paesi arabi moderati, e da utilizzare le loro contraddizioni e incertezze interne, come in Arabia Saudita. Se si pensa che i sauditi sono la testa del movimento arabo moderato in cui il nostro mondo spera, e che solo qualche mese fa hanno sponsorizzato un governo di unità nazionale fra Abu Mazen e Hamas e poi hanno invitato Ahmadinejad in visita a Ryiad, questo rivela la confusione dei totalitarismi mediorentali che si dibattono fra paura e interesse: su questa, può contare la parte terrorista, più decisa e sicura del consenso della gente in Egitto, Giordania, Territori palestinesi...
Con il suo intervento economico e strategico, fornendo armi “state of the art” alla Siria e agli Hezbollah con l’aiuto russo e ora, pare, con l’intervento nordcoreano, e probabilmente anche nascondendo in Iran, sostengono varie notizie d’intelligence, Bin Laden e i suoi... l’Iran ha creato una situazione nuova, in cui procede rapidamente alla costruzione della bomba, l’11 di settembre ultimativo: per noi, essa prospetta all’orizzonte non solo la guerra al terrorismo, ma all’esercito terrorista; alla diffusione mondiale dell’Islam; all’attacco alle popolazioni civili dell’Occidente come rischio che riguarda non le migliaia ma i milioni; all’uso massiccio delle disgraziate popolazioni dei terroristi come loro scudo; alla diffusione delle armi di distruzione di massa.
Probabilmente l’operazione che giovedì della scorsa settimana l’esercito israeliano ha compiuto segretamente in territorio siriano con cinque F15 che hanno lasciato, secondo quello che ci è oggi possibile sapere, “un grande buco nel deserto”, è la prima mossa di una guerra al nuovo schieramento nel suo insieme: se le notizie che trapelano sono vere, Israele si sarebbe decisa con un’operazione molto rischiosa a colpire una non meglio identificata “facility” nucleare costruita dalla Nord Corea con soldi iraniani sul terreno siriano. E’ anche riuscita a dimostrare che si può mettere in crisi il sistema russo antimissile Pantsyr, evitandone la minacciata reazione, che si può compiere un alto giro nei cieli probabilmente anche della Turchia ed oltre, evitando di essere identificato e colpito, e che si può agire concretamente contro le armi di distruzioni di massa che il nuovo sistema terroristico sta distribuendo ai suoi alleati per minacciare il mondo occidentale in generale. Questa è la migliore commemorazione dell’11 settembre: quella che mette a terra una struttura destinata a portare morte e distruzione, che riconosce la forza del nuovo terrorismo e delle sue joint venture e lo colpisce senza paura.
http://www.loccidentale.it/node/6438

martedì 6 novembre 2007

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