mercoledì 30 dicembre 2009

La squadra dei sogni

Travaglio vicepremier e Genchi al Viminale: il governissimo della manetta
DALLE CONSULTAZIONI AL GIURAMENTO: LA VERA STORIA DELL’ESECUTIVO GUIDATO DA DI PIETRO.
A FIANCO DEL LEADER DELL’IDV CI SONO FURIO COLOMBO (ESTERI), BEATRICE BORROMEO (PARI OPPORTUNITÀ), VLADIMIR LUXURIA (DIFESA) E BEPPE GRILLO (AMBIENTE)
Lo chiamarono “il Golpe di velluto”.
Non tanto a causa della ferocia degli eventi che portarono all’abdicazione di Silvio Berlusconi - i trattori che sfondano Porta Pia, l’onda viola, la massa furiosa dei No B Day all’assedio di palazzo Grazioli. No. Il “Golpe di velluto” fu per via del tessuto della giacchetta a coste sottili comprata all’Oviesse di Termoli, che Antonio Di Pietro indossava al Quirinale il giorno del giuramento. Era il suo primo mandato alla Presidenza del Consiglio; e Tonino, povero cristo, non aveva avuto tempo per cambiarsi d’abito. D’altronde gli avvenimenti attorno a lui turbinavano incontrollati sulla giostra della Storia. Prima l’editoriale di chiamata alle armi di Paolo Flores D’Arcais (che, in fondo, voleva soltanto un posticino al Senato, non pensando di scatenare l’inferno...); poi Marco Travaglio che nella sua tournée teatrale iniziò misteriosamente a disertare i congiuntivi e a tradurre i testi in molisano stretto, un segnale in codice che dare il via all’attacco; infine l’orda dei cosacchi comunisti, i quali richiamati dal traditore gramsciano Antonio Ricci, arrivarono ad abbeverare i cavalli al Laghetto dei Cigni dopo aver fucilato il Gabibbo. Fu per tale susseguirsi concitato d’avvenimenti che il popolo - che, si sa, è bue - cambiò idea: mollò, non senza riluttanza, l’esausto Silvio e si gettò nelle braccia di Tonino. Solo che Di Pietro Presidente del Consiglio era la parte più facile, nonostante Napolitano gli avesse fatto ripetere per tre volte il giuramento (qualcosa non andava; non era l’emozione, ma la consecutio...). Il dramma vero, però, era nominare tutto il nuovo governo; accontentare la folla dei rivoluzionari -antiberlusconiani, giustizialisti, fuorusciti bersaniani, diccì geneticamente modificati, giornalisti del Fatto- richiedeva paraculismo e innate doti d’equilibrio; e se sul paraculismo Tonino era preparatissimo, sull’equilibrio, da sempre, difettava. La prima scelta fu, naturalmente, Travaglio co-premier al posto strategico che era di Gianni Letta; a dire il vero, Tonino lo voleva alla Giustizia, ma sapendo che Marco avrebbe rotto i coglioni anche alla sinistra, preferì metterci uno più moderato. Flores D’Arcais. Il quale, ebbro d’insospettata gioia, subito piazzò la redazione di Micromega direttamente al Palazzo di giustizia di Milano -casa e bottega- e produsse la riforma per l’unificazione totale delle carriere, coi segretari di redazione e i correttori di bozze che potevano turnarsi, all’occasione, come pubblici ministeri.
Dopo qualche mese di vaporosa follia, il premier decise che era il caso di affiancare al Guardasigilli un tecnico: Gherardo Colombo non poteva, arrivò il giudice Santi Licheri. Tonino scelse poi i suoi sottosegretari: Massimo Donadi, Beppe Giulietti sbendato dalle elezione del 2006 e Checco Zalone chiamato “per competenza territoriale”a risolvere l’emergenza rifiuti in Campania. Zalone tentò di spiegare di essere un comico («Perché, Flores secondo te è un ministro?», rispose Tonino); e di essere di Bari e che Bari era in Puglia, ma non ci fu nulla da fare. Tonino proseguì sulla linea della creatività. Nominò Fazio (Fabio) all’Attuazione del programma (convinto che il programma fosse su Raitre);Homer Simpson alla Semplificazione Normativa; alla Pubblica Amministrazione Pancho Pardi, che vestito con poncho e sombrero riuscì ad estendere le assunzioni selvagge nelle Poste, ai catasti e nei dicasteri di Croazia, Bosnia Erzegovina e Tunisia occidentale; e Beatrice Borromeo alle Pari Opportunità, non tanto per le competenze professionali quanto perché «Se Berlusconi ci aveva messo una gnocca, io no?». C’era del raziocinio, nella sua strategia politica.
Luca di Montezemolo che passava di lì per caso, divenne ministro del Turismo, senza portafoglio, non si sa mai. Gli Esteri andarono, per esclusione, a Furio Colombo, l’unico della compagine che sapeva l’inglese e non scambiava il Senato di Washington per un trullo riuscito male. Inconsueta fu la scelta di Gioacchino Genchi, Interceptor, il superpoliziotto dei tabulati impossibili agli Interni. In realtà gli uscieri videro Genchi aggirarsi per palazzo Chigi affannato, con un pacco di faldoni in mano alla ricerca di una toilette; s’infilò, per sbaglio, nell’ufficio del Presidente del Consiglio, e ne uscì, venti minuti dopo, Guardasigilli. Ma senza i faldoni. Altra cooptazione bizzarra fu il recupero di Vladimir Luxuria alla Difesa. La nomina del transgender, dettata certo da un clima pacificatorio (e anche perchè in divisa Vlady sta un figurino), comportò qualche innovazione e provocò lo sconcerto della Nato e del Patto Atlantico. Fu ripristinata la leva maschile obbligatoria, ma il kit della nuova fanteria meccanizzata prevedeva, curiosamente, smalto per le unghie, tette finte e giarrettiere peraltro scomodissime sotto gli anfibi, specie nelle marce alpine. Il ministero del Lavoro, per capacità, toccò a Tito Boeri; quello dell’Economia, per riconoscenza, a Carlo De Benedetti. Il quale, grazie ai micidiali attacchi del suo partito mediatico -Repubblica e compagnia bella- era riuscito a dare una spallata decisiva al Popolo delle Libertà. E anche al Pd. Lo spin doctor Eugenio Scalfari inizialmente sottosegretario, ritenendo di non essere mai stato “sotto” in vita sua divenne “soprasegretario”. Beppe Grillo, oramai fantasma di sè stesso, andò ai trasporti in virtù della sua patente nautica. Il medico Daniele Luttazzi alla Sanità, e cominciò a non ridere più. Dariofoefrancarame - tutt’attaccato - s’aggrapparono all’Istruzione, coordinati da Michele Serra che potè sbizzarrirsi ai Beni Culturali.
Dopo due giorni Michele -la nemesi- iniziò a scrivere liriche scanzonate come Sandro Bondi. Santoro alle Comunicazioni, Ruotolo sottosegretario. Cristiano Di Pietro omonimo e casualmente figlio del premier fu indicato alle Politiche Giovanili, Agricoltura e Trasporti; la Freccia Rossa venne sostituita con comodi e più sicuri trattori a due ottani. Fred Bongusto venne nominato sottosegretario. Non si capì mai di preciso il perchè, ma era molisano....
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mercoledì 2 dicembre 2009

sabato 7 novembre 2009

Riflessioni sul comunismo da parte di chi l'ha sperimentato sulla propria pelle

Idealismo assassino
Riflessioni sul comunismo a vent'anni dalla caduta del Muro di Berlino
di Paul Hollander
7 Novembre 2009
La percezione pubblica delle atrocità su vasta scala, degli omicidi e delle violazioni dei diritti umani commessi in nome e per conto del comunismo è alquanto scarsa. Ecco perché anche in seguito alla caduta del comunismo sovietico, sono numerosi gli intellettuali occidentali che hanno conservato la convinzione che sia il capitalismo la radice di tutti i mali. (Washington Post)

Il muro di Berlino caduto vent’anni fa è stato un simbolo che ben si addice al comunismo. Ha rappresentato un tentativo storicamente senza precedenti d’impedire alla gente di “passare dall’altra parte” e lasciarsi alle spalle una società che non approvava. Il muro era solo il segmento più evidente dell’immenso sistema di ostacoli e fortificazioni della Cortina di Ferro, che si estendeva per migliaia di chilometri lungo il confine del “Commonwealth socialista”. Io sono uno di quelli che sono riusciti a superare questi ostacoli nel novembre del 1956, quando vennero parzialmente e temporaneamente smantellati lungo il confine austro-ungarico. Le esperienze vissute nell’Ungheria comunista, dove ho vissuto sino all’età di 24 anni, hanno inciso per molto tempo sulla mia vita e sul mio lavoro.
Benché gli americani, tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta del Novecento, fossero estremamente interessati al comunismo - qualcuno con ostilità, qualcun altro con simpatia - del comunismo sapevano in realtà ben poco. E poco vien detto, qui e oggi, sul crollo dell’impero sovietico. La fugace attenzione prestata dai media al gran peso degli eventi della fine degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta fa il paio con la loro iniziale indifferenza nei confronti dei sistemi comunisti. La percezione pubblica delle atrocità su vasta scala, degli omicidi e delle violazioni dei diritti umani che si verificarono negli stati comunisti è scarsa. Lo è ancor di più se confrontata con la percezione dell’Olocausto o del nazismo, che comunque hanno portato a un numero di vittime molto inferiore. La quantità di documentari, lungometraggi o programmi televisivi sulle società comuniste è qualcosa di ridicolo in rapporto a quelli sulla Germania nazista e/o sull’Olocausto, e sono poche le università che organizzano corsi sugli stati ancora comunisti e su quelli che non lo sono più. Per la maggior parte degli americani il comunismo e le sue variegate incarnazioni sono rimasti nulla di più di un’astrazione.
Le diverse risposte morali al nazismo e al comunismo in Occidente possono essere interpretate come un risultato della percezione delle atrocità commesse dal comunismo in quanto sottoprodotti di nobili intenzioni. Di propositi che si sono dimostrati troppo difficili da mettere in atto senza ricorrere alle maniere forti. Invece, le oltraggiose violenze naziste sono percepite come un male assoluto privo di giustificazioni elevate e che non gode dell’appoggio di un’ideologia davvero allettante. Esistono molte più informazioni e prove materiali sugli omicidi di massa perpetrati dai nazisti e sui loro metodi di sterminio turpi e premeditati. Ma allo stesso modo molte tra le vittime dei sistemi comunisti sono morte a causa delle impossibili condizioni di vita dei posti in cui erano detenute. La maggior parte delle vittime del comunismo non è stata causata da tecniche industriali avanzate.
I sistemi comunisti hanno spaziato dalla piccola Albania all’immensa Cina, dai paesi dell’Europa orientale a quelli sottosviluppati dell’Africa. Pur se divergenti sotto vari aspetti, tutti avevano in comune la fiducia nel marxismo-leninismo come fonte di legittimazione, il sistema monopartitico, il controllo dell’economia e dei media e la presenza di un'imponente forza di polizia politica. Senza contare il fatto di aver condiviso un impegno verosimile per la creazione di un essere umano moralmente superiore, l’uomo socialista o comunista.
Sotto il comunismo la violenza di natura politica aveva un’origine idealistica, e un obiettivo in qualche modo purificatore. Chi veniva oppresso e ammazzato era considerato moralmente corrotto e pericoloso per un sistema sociale superiore. La stessa dottrina marxista della lotta di classe ha fornito un adeguato supporto ideologico all’omicidio di massa. La gente era perseguitata non per quel che faceva ma per l’appartenenza a categorie sociali che la rendeva sospetta.
In seguito alla caduta del comunismo sovietico molti intellettuali occidentali hanno conservato la convinzione che sia il capitalismo la radice di tutti i mali. La tradizione di una tale animosità è lunga fra quegli intellettuali d’Occidente che hanno concesso il beneficio del dubbio se non la propria totale simpatia a quei sistemi politici che denunciavano il movente del profitto e che proclamavano l’impegno per la creazione di una società più umana ed egualitaria e di esseri umani finalmente liberi dall’egoismo. Il fallimento dei sistemi comunisti nel migliorare la natura umana non significa che ogni tentativo in tal senso debba essere destinato al fallimento, ma che di fatto i miglioramenti saranno modesti e che ottenerli con la coercizione sarà tutt’altro che facile.
Le ragioni del collasso del comunismo sovietico sono state molteplici. Tra queste, l’inefficienza economica che ha avuto come risultato la cronica penuria di cibo e beni di consumo, e la propaganda, pervasiva e mendace, limitata a un travisamento di routine della realtà che metteva in evidenza l’abisso tra la teoria e la pratica, tra il fare una promessa e il mantenerla. La volontà politica dei leader dietro la Cortina di Ferro è scemata con il passar del tempo, in parte per le rivelazioni di Nikita Khrushchev nel 1956 sui crimini di Stalin ma anche a causa della loro personale esperienza delle falle nel sistema. Non avevano più la volontà di stroncare il dissenso. Negli anni Ottanta del Novecento Mikail Gorbaciov consentì la diffusione di nuove rivelazioni sugli errori e sui mali del comunismo, minando così ancor di più la legittimità del governo comunista.
Il collasso del comunismo sovietico non fa che confermare come gli esseri umani motivati da alti ideali siano capaci di infliggere grande sofferenza con la coscienza pulita. Ma il crollo del comunismo conferma anche che a certe condizioni la gente è in grado di rilevare la differenza tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. L’abbracciare o il rifiutare il comunismo corrisponde alla gamma di attitudini che vanno dall’idealismo illuso e distruttivo alla presa d’atto che la natura umana preclude di per sé all'attuazione di organizzazioni sociali utopistiche e che l’accurato equilibrio di mezzi e fini è la condizione primaria ed essenziale per la creazione e la conservazione di una società rispettabile.
© Washington Post
Traduzione Andrea Di Nino
http://www.loccidentale.it/articolo/il+muro+di+berlino+ella+vergogna+%C3%A8+stata.0081231

sabato 10 ottobre 2009

Gino Strada

Il nobel per la pace del 2009 è stato assegnato a Barack Obama, uomo che finora non ha fatto nulla per meritarselo, e che anzi è a capo della più grande potenza militare del mondo, e risulta impegnato in due guerre, Afghanistan ed Iraq, e minaccia di aprirne una terza in Iran.Questo premio è l’ulteriore esempio di gratifica con un nobel di un personaggio i cui meriti non sono effettivi ma ideologici, quindi fondati sull’adesione alla corrente del “pensiero unico” progressista. Sarebbe facile riportare altri casi di figure, o figuri, insigniti di nobel per la pace, ma qui si preferisce ricordare succintamente un soggetto che è stato candidato a tale premio, pur non avendolo vinto, e che è italiano: Gino Strada.Questi durante gli anni della “contestazione” era stato un membro di spicco del famigerato e violentissimo Movimento Studentesco del l'Università Statale di Milano. Questa era un’organizzazione di estrema sinistra, il quale si auto-definiva “stalinista”, al punto da gridava nelle proprie manifestazioni “viva Stalin, viva Berja, via la Ghepeu”, in questo modo inneggiando sia al dittatore georgiano, sia al più noto dei suoi capi dei servizi segreti. Questo movimento disponeva del più organizzato e pericoloso fra tutti i “servizi d’ordine”, in realtà reparti paramilitari, di quegli anni, i cosiddetti “katanga” o “katanghesi”.I “katanghesi” avevano un armamento individuale uniforme ed accuratamente predisposto dai loro capi: il casco da combattimento, le "caramelle", ossia sassi nelle tasche (con l’obbligo di portarli sempre con sé), e la cosiddetta “penna", la famosa Hazet 36 cromata, una chiave inglese d'acciaio lunga quasi mezzo metro che andava nascosta sotto l'eskimo o nelle tasche del loden, tipici segni di riconoscimento degli estremisti comunisti dell’epoca. Questi estremisti avevano infine selezionato la Hazet 36 dopo aver scartato altri strumenti di offesa, quali i manici di piccone, le mazze ecc., poiché avevano sperimentato direttamente che presentavano rispetto alla chiave inglese una minore efficacia. La “penna” aveva anche il vantaggio aggiuntivo di facilitare la difesa in caso d’arresto, poiché si poteva tentare di giustificarla quale “strumento di lavoro”.I “katanghesi” non erano soltanto armati, ma molto bene organizzati e disciplinati, con una serie di reparti inquadrati da comandanti ed una disciplina interna molto severa. Manovravano sulle piazze e nelle vie in formazioni serrate ed ordinate, di centinaia e centinaia di uomini, simili all’assetto da battaglia di una coorte romana. Accadeva sovente che non fosse la polizia ad attaccarli, ma al contrario che fossero i “katanga” a caricare la polizia con estrema violenza. Oltre alla polizia ed ai carabinieri, il Movimento Studentesco assaliva gli avversari di destra, e giudicava nemici praticamente tutti gli altri movimenti di sinistra di quegli anni: Avanguardia Operaia, Lotta Continua, Lotta Comunista (con cui si ebbe a Milano uno scontro di straordinaria violenza), ed altri ancora. Persino i primi gruppi di Comunione e Liberazione, del tutto pacifici, furono vittime della violenza del “Movimento Studentesco”.Gino Strada era membro di tale organizzazione paramilitare stalinista, ed aveva anzi un ruolo importante. Il capo supremo dei “katanga” era Luca Cafiero, ed al di sotto della sua autorità esistevano i vari comandanti subordinati, ognuno con un reparto ai propri ordini: si trovavano ad esempio Mario Martucci ed il suo gruppo "Stalin"della Bocconi, Franco Origoni per la squadra di Architettura, Roberto Tuminelli alla guida del gruppo "Dimitroff" (il comunista che forse incendiò il Reichstag) e molti altri ancora. Fra queste squadre spiccava quella dal nome “Lenin”, tratta dalla facoltà di Medicina e Scienze, ed alla cui guida si trovava proprio Gino Strada. La squadra “Lenin”, che aveva ricevuto un nome così illustre nella storia del comunismo, era giudicata da Luca Cafiero quale la più fidata ed aggressiva, costituendo in tal modo una sorta di unità scelta.Questo è il passato, per nulla pacifico, anzi sicuramente illegale ed eversivo (alcuni direbbero criminale) di Gino Strada, che ora si definisce pacifista e si presenta quale una sorta di missionario laico. E’ degno di nota che il dottor Strada ha definito “delinquenti politici” i suoi avversari e critici, dopo essere divenuto responsabile di una grossa associazione dal notevole fatturato come “Emergency” (società sedicente “no profit”, e sviluppatasi grazie a finanziamenti ed aiuti di vario tipo).

giovedì 17 settembre 2009

Kabul - 17 settembre 2009

In onore dei nostri fratelli caduti a Kabul 17/09/09

Tenente Antonio Fortunato, originario di Lagonegro (Potenza)
Presente !
Sergente maggiore Roberto Valente, di Napoli
Presente !
Primo caporal maggiore Matteo Mureddu, di Oristano
Presente !
Primo caporal maggiore Davide Ricchiuto, nativo di Glarus (Svizzera)
Presente !
Primo caporal maggiore Gian Domenico Pistonami, di Orvieto
Presente !
Primo caporal maggiore Massimiliano Randino, nato a Pagani (Salerno)
Presente !

Preghiera del Paracadutista
Eterno immenso Iddio,
che creasti gli eterni spazi e ne misurasti le misteriose profondità,
guarda benigno a noi, Paracadutisti d’Italia,
che nell’adempimento del nostro dovere,
balzando dai nostri apparecchi,
ci lanciamo nella vastità dei cieli.
Manda l’Arcangelo S. Michele a nostro custode,
guida e proteggi l’ardimentoso volo.
Candida come la seta del paracadute sia sempre la nostra fede
e indomito il coraggio.
La nostra giovane vita è tua o Signore!
Se è scritto che cadiamo, sia!
Ma da ogni goccia del nostro sangue
sorgano gagliardi figli e fratelli innumeri,
orgogliosi del nostro passato,
sempre degni del nostro
immancabile avvenire.
Benedici, o Signore, la Patria, le famiglie, i nostri cari!
Per loro, nell’alba e nel tramonto,sempre la nostra vita!
E per noi, o Signore, il tuo glorificante sorriso.
Così sia.


http://78lupiditoscana.wordpress.com

giovedì 20 agosto 2009

Afghanistan - elezioni

Siamo a Kabul per salvare le nostre città
Renato Farina
Pubblicato il giorno: 20/08/09
L'Afghanistan non è solo l'Afghanistan. Le elezioni che ci sono lì proprio quest'oggi, gli attentati che cercano di impedirle, non accadono solo in Afghanistan. Se non capiamo questo, è inutile stare a parlarne, e non serve a niente occuparsene. Se noi stessimo rischiando la vita dei nostri soldati per consentire a Karzai di fare il tirannello asiatico parademocratico e pasthun, saremmo dei cretini al cubo, anzi dei delinquenti che fanno ammazzare i propri figli e fratelli per i disegni oscuri degli americani, da Bush a Obama. In realtà l'Afghanistan è sempre di più, in stretta unione di fatto con buona parte del Pakistan, il regno di Talibanistan. E - se vogliamo essere spiritosi un po' fuori luogo - Kabul è, per Osama e Al Qaeda, Binladonia come Topolinia per Topolino anche quando è in trasferta con Pippo.
Per questo la partita che si gioca nelle elezioni di queste ore sono un fatto tremendamente serio. Non riguardano appena i 17 milioni di potenziali elettori afghani, ma l'intero mondo. Se fossero una barzelletta senza sugo democratico, perché i talebani e i loro sodali di Al Qaeda spunterebbero con tanta forza contro questo voto? Perché comunque lì il popolo si esprime, e se va alle urne in una percentuale decente (diciamo il 40 per cento) vorrebbe dire che neanche le minacce e le esecuzioni tramite autobomba non distolgono la gente dalla volontà di sottrarsi ai padroni in nome di Allah.
I nostri alpini e la nostra folgore non sta in Afghanistan come i bersaglieri di Cadorna in Crimea per ordine di Cavour, un prezzo in uomini (più di 2000) e mezzi per far parte del circolo dei potenti. Oggi siamo ancora minacciati direttamente da questa organizzazione terroristico-religiosa globale a nome Al Qaeda. Essa ha il suo santuario in quelle regioni. Da quando non ha più uno Stato a disposizione non è riuscita a pianificare o almeno a realizzare un attentato paragonabile a quello dell'11 settembre. In Afghanistan la presenza degli eserciti occidentali è utile per presidiare territori e tenere occupate le milizie fondamentaliste, ed impedire anche che il Pakistan, dotato di circa 50 bombe atomiche, finisca sotto il controllo di Bin Laden. Già adesso nell'esercito e nei servizi segreti di Islamabad lo sceicco yemenita gode di considerazione, e quando Obama da Washington fa sapere di voler dialogare con i talebani moderati, in realtà cerca di indurre a patti i generali pakistani fondamentalisti e propensi a considerare il mullah Omar come un possibile Alleato, come lo fu fino a una decina di anni fa.
Mandando i soldati lì in realtà, un po' egoisticamente, difendiamo noi stessi e il nostro futuro. Ma è un egoismo sano e responsabile, perché oltre a salvare noi stessi preserva buona parte del mondo dalla catastrofe di un Regno Talebano, dove le vittime sarebbero innanzitutto le donne e i bambini. Le donne si sa perché: impossibilitate a studiare, a uscire di casa, vere schiave dei mariti-padroni. I bambini perché indottrinati, condizionati a essere plastilina modellata dai capiguerriglia.
Ovvio: la democrazia non si esporta. Esige un cambio di cultura. Ma che i capi si debbano eleggere non è un dato della democrazia occidentale, lo fanno anche nelle tribù africane, e la volontà di un uomo lo capiscono da ogni parte del mondo che non è fatta per essere conculcata. Per questo le elezioni sono importanti. Stabiliscono un metodo. Consentono un minimo di libertà nel progettare il futuro.
Si dirà: Karzai è lo stesso figuro che consente alle famiglie sciite di trattare le donne come tranquillamente stuprabili purché all'interno della casa? Sì, è lui. Non può piacere un tipo così. E bisognerà far valere il nostro peso morale e non solo morale con lui, anche riguardo alla libertà di religione e di coscienza che i cristiani lì non hanno. Ma qui non c'è da difendere Karzai, e le sue convinzioni infami magari dettate dal calcolo elettorale. Siamo da quelle parti per impedire la proliferazione della peste talebana.
Vincerà Karzai? Pare abbastanza scontato. Nonostante gli attentati mirino a impedire che si rechino ai seggi i votanti del Sud, quelli di etnia pasthun, in passato compattamente pro Karzai (al potere da cinque anni).
Il Ministero degli esteri aveva chiesto di evitare la diffusione di notizie riguardanti violenze tra le 6 e le 20 (ora locale) della giornata elettorale, in corrispondenza dell'apertura dei seggi, per «garantire l'ampia partecipazione» degli elettori al voto. Per fortuna gli americani hanno spiegato ai loro "protetti" che la democrazia non coincide con l'oscurantismo. Pur essendo la situazione seria e la paura palpabile: grave il fatto che per la prima volta le milizie talebane non si siano infatti limitate a chiedere il boicottaggio del voto ma abbiano minacciato di attaccare i seggi (secondo la Nato solo l'1% delle sedi elettorali rischierebbe di diventare l'obbiettivo di un attentato: ma questo dato basterebbe in tutto il mondo a stare a casa…).
Intanto, da Bruxelles la Commissione europea ha denunciato il rischio di «brogli elettorali».
Che comunque le elezioni mobilitino insospettabili energie, lo si capisce anche dal numero e dalla qualità dei candidati alla presidenza. Sono 41!
Di Hanid Karzai abbiamo detto, è pasthun, è un capo pragmatico, disponibile a compromessi anche coi talebani.
Il più pericoloso rivale di Karzai è l'oftalmologo Abdullah Abdullah, già ministro degli esteri, molto stimato quand'era in carica da Gianfranco Fini. L'ultimo sondaggio gli assegna il 26% dei voti, contro il 44% per Karzai. Era il braccio destro e consigliere politico del comandante Ahmad Shah Massud, impegnato contro i sovietici. Io tifo per lui, ma è difficile.
Con possibilità zero ma con molto coraggio (sono morte, lo sanno, e insistono) ci sono due donne candidate. Sono Frozan Fana e Shahla Ata. Lo slogan di Fana (40 anni) è: "pace e sicurezza, libertà di stampa e difesa della sovranità nazionale". È vedova di un ministro assassinato nel 2002. Ata ha 42 anni, che non pensa neppure lontanamente all'eventualità di indossare burqa. Allegra ed estroversa, si trucca gli occhi e si pittura le unghie. Che qui è un fatto politico.

La Centrale nucleare di Montalto di Castro

monumento simbolo della sconfitta della politica energetica potrebbe essere riattivato
La centrale (fallita) di Montalto è costata 250 euro a ogni italiano
Spesi 7 mila- miliardi di lire. E il nuovo impianto lavora 3.000 ore sulle 8.600 previste
La centrale nucleare di Montalto di Castro (Olycom)
ROMA — Sprezzanti del ridicolo l'hanno pomposamente battezzata: «Centrale Alessandro Volta». Pensate! Dare il nome dell'inventore della pila, praticamente il padre dell'elettricità, a una centrale che sta quasi sempre spenta. Insomma, una specie di pila esausta. Benvenuti a Montalto di Castro: monumento gigantesco al fallimento della politica energetica italiana costruita sulle ceneri del nucleare, inutilmente costato almeno 250 euro a ogni italiano, lattanti e vegliardi compresi. E come sempre accade in Italia le responsabilità di un simile disastro si dissolvono in una nebbia impalpabile, dove tutti sono un po' colpevoli, quindi nessuno lo è. I politici della prima Repubblica, quelli della seconda, l'Enel, i petrolieri. Perfino gli ambientalisti che si battevano contro l'energia atomica. La centrale di Montalto di Castro è stata anzi la loro più grande sconfitta.
A metà degli anni 80 erano agguerritissimi. Qualche anno prima c'era stato l'incidente di Three Mile Island che aveva dato spunto al famoso film Sindrome cinese e il movimento antinucleare si era diffuso in tutta Europa. Anche se non aveva molta udienza presso i governi. Per gli oppositori dell'atomo, in Italia, non andava molto meglio. Finché, nella primavera del 1986 a Chernobyl, in Ucraina, si verificò la catastrofe nucleare più grave della storia. E gli eventi precipitarono. Il governo del segretario socialista Bettino Craxi cavalcò immediatamente l'onda antinucleare. Ben presto furono superate anche le resistenze all'interno della Democrazia cristiana e dello stesso Partito comunista. E il referendum del 1987 passò con un consenso mai registrato prima. Di colpo, in Italia, i nuclearisti erano scomparsi. Era novembre, al governo Craxi era subentrato quello di Giovanni Goria: tutto avvenne con una rapidità impressionante, considerando i tempi geologici delle decisioni italiane. Con un paradosso, che gestire la frase di transizione toccò a un ministro, tra gli altri, Adolfo Battaglia, esponente dell'unico partito, quello repubblicano, che aveva sostenuto fino all'ultimo, contro tutto e tutti, la scelta nucleare. Per prima cosa la chiusura delle centrali in attività. I quesiti referendari non avrebbero in teoria obbligato l'Enel a fermare i reattori. Ma il Psi e la Dc, con l'appoggio del Pci, interpretarono così la volontà politica degli elettori. E fecero spegnere gli interruttori. E i lavori alla centrale di Montalto di Castro, quasi completata, vennero interrotti. A quel punto cominciò una danza a suon di quattrini. L'Enel e le imprese fornitrici rivendicarono innanzitutto i danni. E pure il pagamento dei pezzi ordinati e non consegnati, come appunto il reattore di Montalto di Castro. Poi la società elettrica, allora guidata da Franco Viezzoli, fece presente che si rischiava il blackout. Bisognava provvedere e il Parlamento, nel quale erano entrati anche gli alfieri del movimento antinucleare, come Gianni Mattioli, non alzò un dito. Non lo alzò quando le importazioni di elettricità prodotta con il nucleare in Francia esplosero. Ma non le alzò neppure quando si decise di costruire, accanto alla centrale nucleare di Montalto di Castro, già costata 7 mila miliardi di lire e che non fu smantellata perché si sarebbe speso troppo (sic!), un secondo impianto da ben 3.200 Megawatt, a policombustibile. Grande quattro volte di più e con una specie di sberleffo agli ambientalisti costituito da una orrenda ciminiera alta 150 metri che si può ammirare da decine di chilometri. Altri 7 mila miliardi di lire, per una centrale nata già vecchia (non era a ciclo combinato, come quelle che venivano costruite allora in tutto il mondo) e con costi di esercizio insostenibili. Tanto insostenibili che oggi una delle centrali più grandi d'Europa resta accesa soltanto 2 o 3.000 ore l'anno, sulle teoriche 8.600 ore, perché l'energia prodotta lì è troppo cara. Intanto i privati non se ne stavano con le mani in mano.
Molti italiani che avevano votato sì al referendum antinucleare erano stati convinti dalla promessa che si sarebbe abbandonata la strada dell'atomo per quella delle energie rinnovabili. Il governo approvò una delibera, la famosa delibera del Cip 6 che concedeva incentivi profumati ai produttori di elettricità pulita. Soltanto che ci infilarono all'ultimo momento, dopo «energie rinnovabili», le paroline «e assimilate». Spalancando un'autostrada agli industriali siderurgici ma anche ai petrolieri che intascarono migliaia di miliardi di contributi pubblici, bruciando i «Tar»: così si chiamano gli scarti della lavorazione del petrolio. Montedison, Falck, Riva, Moratti, fecero soldi a palate.
E le famose energie rinnovabili? Di quelle per vent'anni neanche l'ombra. Nel 2007 l'Italia produceva con il solare un cinquantesimo dell'elettricità prodotta in Germania attraverso il fotovoltaico. In compenso siamo diventati il Paese con il record mondiale del consumo degli inquinanti idrocarburi per la produzione di energia elettrica. Per non parlare dei costi. Quanti italiani dopo aver già sborsato 8 miliardi di euro per pagare all'Enel e ai suoi fornitori i danni dell'uscita dal nucleare, sanno che ancora pagano sulla bolletta elettrica un sovraprezzo destinato a una società pubblica, la Sogin, per lo smaltimento delle vecchie scorie? E che lo pagheranno ancora per una quindicina d'anni nella migliore delle ipotesi? Se la fallimentare operazione di Montalto di Castro è costata 250 euro a ogni cittadino italiano, 15 miliardi e mezzo di euro in tutto compresi i maggiori costi del petrolio rispetto a quelli dell'uranio, l'uscita dal nucleare è stata ancora più cara: 424 euro pro capite, cioè 25,5 miliardi di euro. E con quale risultato? Che siamo il Paese europeo più dipendente dal petrolio e dove l'energia costa più cara, che siamo il fanalino di coda delle energie rinnovabili, che abbiamo il primato delle importazioni e che ora abbiamo deciso di tornare al nucleare, per volontà di alcuni di quei politici che venti anni fa avevano persuaso gli italiani a uscirne. E Montalto? Tranquilli, ci sono buone probabilità che l'atomo torni anche lì. Secondo il presidente di Edf, il partner nucleare dell'Enel, Pierre Gaddonneix, quello è un posto ideale per una centrale nucleare. Come la chiameranno stavolta?
Sergio Rizzo13 luglio 2009
sul CORSERVA

martedì 11 agosto 2009

Chi di spada ferisce......

Il boomerang morale colpì anche il vecchio Pci
Giancarlo Lehner
Pubblicato il giorno: 16/07/09
Intervento
Caro Vittorio, induce a pena la sparatoria sulla Croce rossa, pardon, sulle perversioni sessuali del Pd. Fra l'altro, c'è il rischio di offrire a qualche malvissuto il destro di uscirsene con panegirici nostalgici a favore del defunto Pci, magari dipinto come partito serio, rigoroso, perbene e innervato di eticità. Per non dire della vecchia sinistra Dc, sulla cui moralità basterebbe chiedere ai patrioti sopravvissuti di Budapest o agli operai di Danzica, allibiti davanti ai nostri rossocrociati, prima, vocati a fraternizzare ed a trafficare coi carnefici; poi, a riempire le valigie di calze di nylon per comprare sotto costo sesso centro-est europeo.Il Pd, nel suo piccolo, non ha inventato niente e non possiede copyright alcuno, sia riguardo all'alcova usata come clava politica, sia rispetto ai vizi privati celati sotto pubbliche virtù. In tali arti, anzi, il Pci, ad esempio, fu maestro. Non mi riferisco ai crimini contro l'umanità, a quelli politici o finanziari e neppure alla colossale, organica e dialettica evasione fiscale, talora ai danni di più Stati, Urss ed Italia in primis. No, intendo proprio il sesso in tutte le sue varianti, a cominciare dal magistrale e cinico impiego del pettegolezzo, disciplina che è giunta sino ad oggi, per testare la resistenza dell'esecutivo Berlusconi.Noi, egregio Feltri, nel 1953-1954, stazionavamo innocenti dentro il grembiulino blu, ma erano i tempi in cui l'eros si apprendeva di straforo, perciò incuriosì anche noi scolaretti la morbosità pruriginosa dell'affare Wilma Montesi.I giornali di destra e di sinistra erano, infatti, riusciti a trasformare il malore, purtroppo con esito infausto, della povera Wilma, in una storiaccia di potenti, vip e ragazzine, con tanto di festini, orge e cocaina. Neanche il fatto che Wilma, dopo l'autopsia, risultasse vergine fece calare la micidiale campagna mediatica.Il Pci, come si legge nel saggio di Victor Ciuffa sulla dolce vita romana, mirò diritto al cuore della Dc, in vista delle elezioni del 1953 e per evitare lo spauracchio della cosiddetta «legge truffa». Scese in campo addirittura Togliatti, conclamato concubino e adultero, il quale pontificò, esortando alla castità, alla purezza e alla «lotta contro l'omertà e la corruzione». Ipocrita e stalinista, per essere libero di amare la Iotti, teneva prigionieri in Urss la moglie Rita e il figlio debole di mente, Aldo, e, intanto, batteva sulla questione morale, affinché «il regime clericale possa giungere ad un crollo».Fu proprio la stampa del Pci ad accusare Piero Piccioni, musicista jazz, figlio di Attilio, allora vicepresidente del Consiglio, ministro degli esteri, massimo dirigente Dc, in pista di lancio per la successione a De Gasperi.Quando il figlio Piero fu arrestato con l'accusa di omicidio colposo e di uso di stupefacenti, il padre Attilio fu costretto a dimettersi da tutte le cariche. Tuttavia, i comunisti non sanno fare i coperchi. Alcuni giornalisti di «Momento Sera», in quella medesima stagione di veleni, erano alle prese con la morte sospetta di «Pupa », una teatina di 22 anni. Da bravi segugi arrivano, infine, alla signora Margherita Fantini, tenutaria d'una casa d'appuntamenti in via Filippo Corridoni 15, Roma, quartiere Prati.Casa Fantini è il porto franco di tutte le perversioni sessuali. Lì, fra gli altri, vanno i mariti che amano rimirare la propria donna, mentre fa sesso con altri maschi o altre donne. Tra i perversi abituali c'è Giuseppe Sotgiu, presidente comunista della Giunta provinciale di Roma, docente universitario, principe del foro, distintosi come Savonarola rosso nel montare il caso Montesi contro la Dc. Togliatti in persona - coincidenza davvero beffarda - l'aveva voluto come presidente della Commissione per la riabilitazione dei minorenni.Ed ora proprio l'avvocato moralista viene beccato come guardone compiaciuto degli amplessi della propria moglie, con vari ragazzi, fra cui uno, forse, minorenne. Chi di alcova altrui ferisce, di sporcizia morale perisce.

L'Europa ha condannato Prodi

Sorpresa: anche l'Europa ha condannato Prodi
Enrico Paoli
Pubblicato il giorno: 30/07/09
Per aver diffuso informazioni falseI fatti risalgono al biennio 2002-2003. La sentenza della Corte di Giustizia Europea, che condanna Romano Prodi, all'epoca dei fatti presidente della Commissione Ue, porta la data dell'8 luglio del 2008.Poco più di un anno fa. Eppure di quella sentenza, nella quale il nome di Romano Prodi non viene mai fatto, ma si cita esplicitamente il «presidente della Commissione», non ne ha mai parlato nessuno. Come se fosse roba di un'altra epoca.la condannaRomano Prodi viene condannato dalla terza sezione del Tribunale della Corte di Giustizia europea per aver fornito al Parlamento Europeo notizie false e non documentate; aver emesso comunicati che mettevano in dubbio l'onorabilità di alti dirigenti che non si erano sottomessi alle sue imposizioni (tanto che vengono rimossi e, non potendoli licenziare, lasciati senza incarico sino alla pensione) e per aver tentato di ostacolare la giustizia. I fatti che hanno portato alla condanna si riferiscono a una contorta vicenda relativa all'Eurostat (ovvero l'ufficio Statistico delle Comunità Europea, travolto da un scandalo nel 2004 che ha visto il direttore generale Michel Vanden Abeele -sostituito poi dall'attuale Günther Hanreich - dichiarare che il governo greco aveva falsificato le statistiche economiche e finanziarie in modo che la Grecia potesse entrare nell'euro-zona). Una polemica innescata dalla lettera di una funzionaria che si riteneva discriminata. L'inchiesta viene aperta dai giudici europei e condotta materialmente dall'Olaf, l'organismo di controllo interno alla Commissione, per capire se tali irregolarità fossero state effettuate su iniziativa di dirigenti o addirittura dallo stesso responsabile della Commissione, Prodi. Un dettaglio, questo, sul quale i giudici della Ue sono arrivati ad una conclusione sufficientemente chiara e lineare.La sentenza«Ugualmente, per quanto concerne il discorso del Presidente della Commissione», si legge a pagina 50 della sentenza, capitolo 404, «non potrà essere negato che con le sue dichiarazioni davanti al Parlamento ha attentato alla reputazione e all'onore dei richiedenti e che, da allora, esiste un legame di casualità diretto fra queste dichiarazioni e questo pregiudizio». Insomma, con le sue parole il presidente della Commissione ha creato un danno a coloro che hanno dato avvio al procedimento. Non solo. La sentenza parla anche di «rimbalzo delle responsabilità», nonché di «fughe di notizie», depistate verso giornali amici. Per capire meglio quest'ultimo capitolo d'accusa occorre rifarsi al paragrafo della sentenza che analizza l'intervento del presidente della Commissione del 25 settembre 2003. Pagina 41 della sentenza, capitolo 326. «Certamente, in questo discorso, il presidente della Commissione sottolinea la mancanza di trasparenza e comunicazione fra il direttore generale di Eurostat e il membro della commissione che esercita la tutela», si legge nel dispositivo, «perciò, lascia intendere che l'implicazione nelle irregolarità del direttore generale di Eurostat, come quella di un altro alto funzionario, è indubbia». Insomma, Prodi prova a scaricare su altri le proprie responsabilità. «In queste circostanze, c'è modo di considerare che, con questo discorso, il presidente della Commissione non ha pienamente rispettato i diritti fondamentali dei richiedenti e, particolarmente, il principio della presunzione d'innocenza», si legge a pagina 42 della sentenza, capitolo 331. Da qui le ragioni della condanna: « Un tale comportamento costituisce una violazione sufficientemente caratterizzata e ben precisa di questo principio (cioè di presunzione d'innocenza ndr)». Alla fine del procedimento la Commissione guidata da Prodi è stata condannata a versare ai due funzionari 56 mila euro e al pagamento delle spese processuali. Il testo integrale della sentenza è pubblico e si può ottenere dal cancelliere della corte Europea.

sabato 8 agosto 2009

Piccola storia stalinista

Igor Argamakow, Morte da cani. Piccola storia stalinista, il Mulino, Bologna 2000, ISBN-13: 9788815077707, pp. 160, € 10,33
Argamakov Argamante (a cura di), Archivio KGB di Vilnius (Ltsr). Dossier N° 51879, con una introduzione di Alberto Gasparini, Isig. Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia, Gorizia 2003
La memoria è il punto più debole dei russi, soprattutto la memoria del male» (1). Il «rifiuto» di ricordare, specialmente il male, che Aleksandr Solženicyn attribuisce al popolo russo quasi come una caratteristica psicologica propria, ha avuto qualche eccezione.
Anzitutto, lo stesso Solženicyn, che, con Arcipelago Gulag, ha voluto preservare dall’oblio – pur avendo potuto «vedere […] soltanto da una feritoia» (2) –, se non il nome, almeno la sofferenza – e la causa di essa –, dei milioni e milioni – sessantasei, secondo il professore di statistica Ivan Kurganov (3) – di persone rinchiuse e sterminate nei campi di concentramento del sistema comunista sovietico. Nei quali la fame, il freddo, le vessazioni, il lavoro forzato in condizioni estreme e le malattie svolgevano il ruolo che nei Lager nazionalsocialisti era affidato al gas. E con Solženicyn hanno vinto la fobia per il ricordo del male anche uomini come Varlam Tichonovič Šalamov (1907-1982), con I racconti di Kolyma (4), nei quali, secondo lo stesso Solženicyn, «il lettore avvertirà più esattamente lo spirito spietato dell’Arcipelago e il limite della disperazione umana» (5), e coloro che oggi, nella Federazione Russa, con l’associazione Memorial (6), si sforzano di conservare la memoria delle vittime del comunismo nell’impero sovietico.

Ma la «dimenticanza» delle vittime del comunismo non è stata – e non è – conseguenza soltanto di una – reale o pretesa che sia – connotazione psicologica del popolo russo. Essa ha avuto una dimensione così universale da poter essere considerata un fenomeno ben più complesso, che ha molte cause. Non ultime tra le quali, la percezione da parte di neo- e vetero-illuministi e progressisti che il comunismo faccia parte dell’«album di famiglia», e l’egemonia culturale, e sui mezzi di diffusione e divulgazione del pensiero e delle immagini, conquistata gramscianamente dai comunisti, dove più, dove meno, in tutto il mondo. Lo studioso francese Alain Besançon ha parlato di «amnesia» – che diventa «amnistia»– per le vittime e per i crimini del comunismo, e di «ipermnesia» per le vittime e i crimini del nazionalsocialismo (7). Si può dire che, se a tutti è stata riservata una «morte da cani», gli uni sono stati anche dimenticati come cani, gli altri, almeno, sono stati e sono ricordati come uomini.
* * *
E proprio Morte da cani (8) s’intitola l’opera d’esordio di un altro russo, che non ha paura di ricordare e di far ricordare, Igor Argamante (italianizzazione dell’originario Argamakow). Nato a Vilnius – allora non capitale della Lituania, ma città polacca con il nome Wilno –, poi naturalizzato italiano e in Italia da sessant’anni, già dirigente industriale della Olivetti e console onorario della Repubblica del Sudafrica a Trieste, Argamante, finalmente in pensione, si è potuto dedicare nella sua piccola patria d’elezione triestina agli studi storici.
E tra le tante storie delle vittime del Novecento, il «secolo del male» di Besançon, egli ha scelto quella di un «uomo qualunque», quella di suo padre, Aleksej Aleksandrovič Argamakow. Un uomo come tanti, che viveva a Wilno. Un uomo che, giŕ sfuggito al tritacarne del golpe dell’Ottobre e della Guerra fra eserciti «bianchi» e «rossi» che ne era seguita, dai fragili confini della Polonia si sentiva protetto. Almeno finché non aveva capito che, con lo scellerato patto «rosso-bruno», più noto come «Molotov-Ribbentrop», si stava organizzando, per lui, come per altre centinaia di migliaia di piccoli e grandi uomini (ma quale uomo è davvero «piccolo»?), fra i quali le vittime di Katyn del 1940, un viaggio.
Un viaggio «in luogo d’ogni luce muto» (9), in quell’inferno storico che era il comunismo realizzato, e dell’inferno nel cerchio più profondo: il GULag, precisamente il KARlag, in Kazachstan. Un viaggio senza ritorno. La sua colpa? Esistere, appartenendo a una classe – nel suo caso la piccola nobiltà – che lo «Stato giardiniere», come lo chiama Zygmunt Bauman (10), rubrica fra le erbacce da estirpare per bonificare la società e trasformarla nel giardino «edenico» prospettato dall’utopia socialcomunista. Gli ultimi brandelli della vita di Aleksej Aleksandrovič Argamakow, finché letteralmente sparisce nell’abisso del GULag, vengono riassunti in una pratica, la n. 51879, istruita dall’Nkvd e conservata «permanentemente» negli archivi del Kgb lituano, «aperti» e messi a disposizione dei ricercatori quando la Lituania ha conquistato la sua indipendenza. Così, Igor Argamante ha potuto ottenere una copia del dossier.
Da quelle aride e demoniache carte, e dai ricordi personali e di famiglia, ricava Morte da cani.Storia amara e triste di un calvario, una «cronaca familiare» temperata dalla tenerezza con la quale l’autore osserva il suo personaggio, che sottrae per sempre all’oblio per farne un esempio incarnato dell’esito anti-umano dell’utopia comunista. Argamante segue con ovvio e trasparente affetto suo padre, e ne vien fuori un’opera che, per il nitore dello stile, la vivacità del racconto, il sarcasmo e la pietà che ne intridono le pagine, l’inesorabile giudizio di condanna del comunismo e dei suoi volenterosi e meschini carnefici, merita d’essere divorata d’un fiato.
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Ultimamente, Argamante è riuscito a pubblicare la traduzione integrale, da lui curata e commentata, del dossier, con il titolo Archivio KGB di Vilnius (Ltsr). Dossier N° 51879, edito dall’Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia () alla fine del 2003 (11).
Egli così mette a disposizione dei lettori e degli studiosi un documento unico: per la prima volta tutti gli atti di una… Come chiamarla? «Istruttoria»? Ma manca il giudice. «Indagine preliminare»? Ma oltre al giudice, manca pure il pubblico ministero. Meglio allora chiamarla «inchiesta di polizia». Attraverso di essa si perveniva alla consegna del perseguito (meglio «perseguitato»?) o al tribunale militare – che avrebbe applicato la misura suprema di «difesa sociale», qualche grammo di piombo sparato nella nuca –, ovvero all’Oso. La sigla è l’acronimo di Osoboje SOveščanie, «Consiglio Speciale» presso la polizia politica (allora l’Nkvd), composto da un membro di questa, da uno della procura e da uno del comitato centrale del partito comunista. Si trattava di un organo che con un tratto di penna (letteralmente) consegnava il malcapitato al sistema di rieducazione sovietico, all’«arcipelago GULag» (12), con provvedimento amministrativo, quindi non motivato. La durata della rieducazione mediante il lavoro forzato di Argamakow fu fissata in otto anni, comunque prorogabili, se il soggetto si fosse mostrato tardo a comprendere la lezione, fino a venticinque, sempre con un tratto di penna e senza dover motivare: la stessa misura che, solo quattro anni dopo, fu riservata a Solženicyn.
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Il volume, dopo una premessa del curatore – lo stesso Argamante – (p. 5), si apre con una introduzione del professor Alberto Gasparini, dell’Università di Trieste e direttore dell’Isig, intitolata puntualmente Dossier n. 51879. Dove si descrivono i modi di mantenere la rivoluzione (pp. 7-16).
In essa, con sintesi felice, egli coglie il carattere di «utopia violenta» della Rivoluzione. L’espressione rimanda ai «coercitive utopians»,gli «utopisti coercitivi», di Rael Jean Isaac e Erich Isaac (13), che «[…] sono sempre stati poco inclini ad accettare la natura umana, ecco perché i loro sogni non si sono mai potuti realizzare senza violenza […]. L’errore fondamentale consiste nella credenza antiscientifica e disumana che l’uomo sia malleabile all’ infinito e che, alle “giuste” condizioni sociali, sia “perfettibile”, ovvero possa essere cambiato nel senso che piace a loro. Di conseguenza essi non ammettono che le istituzioni base che la nostra civiltà ha sviluppato nel corso dei millenni riflettano i caratteri essenziali della natura umana. La proprietà privata, la famiglia, la religione e la nazione, tutte insieme e separatamente, sono state sottoposte a continui attacchi negli ultimi due secoli, con risultati inevitabilmente disastrosi. Si è trattato, in definitiva, di una guerra combattuta per due secoli contro l’individuo, i suoi diritti, la sua dignità e la sua sovranità […].
Il comunismo era l’espressione più coerente delle loro aspirazioni» (14).
Il Direttore dell’Isig, quindi, non cade nella trappola terminologica secondo la quale si dovrebbe separare l’idea rivoluzionaria comunista, in sé nobile e giusta, dagli orrori che ne sono derivati, e addebitarli ad un suo preteso tradimento da parte di soggetti deviati e devianti, utilizzando allo scopo come categoria il termine «stalinismo», quasi contrapponendolo a «comunismo». È ormai sufficientemente noto agli studiosi che Josif Vissarionovič Džugasvili, detto «Stalin», (1879-1953) ha semplicemente applicato le leggi ed i sistemi voluti da Vladimir Il’ič Ulianov, detto «Lenin», (1870-1924), senza inventare nulla. Ma è pur vero che ciò è molto meno noto al grande pubblico, non è ancora «luogo comune». Non è cioè di «dominio pubblico» il fatto che, ben prima che Stalin avesse il tempo, il potere e la forza per attuarle compiutamente, era stato Lenin a dare le direttive. «Le masse devono sapere che […] loro compito sarà l’implacabile annientamento del nemico» (29 agosto 1906) (15). «Purgare la terra russa da ogni sorta di insetti nocivi» (Come organizzare la competizione, articolo del 7 e 10 gennaio 1918) (16). «Compagni, la rivolta di cinque distretti di kulaki deve essere repressa spietatamente. […] 1. Impiccare, in modo che il popolo veda, non meno di un centinaio di kulaki noti. […] 3. Prendere loro tutto il grano. 4. Designare gli ostaggi. 5. Attuare un implacabile terrore di massa contro kulaki, pope e guardie bianche; rinchiudere i sospetti in un campo di concentramento fuori della città» (Telegramma del 9 agosto 1918 al Comitato Esecutivo del Partito di Penza) (17). «È ora e soltanto ora, quando nelle regioni affamate la gente mangia carne umana e migliaia di cadaveri coprono le strade, che possiamo (e perciò dobbiamo) procedere alla confisca dei preziosi della Chiesa con la più selvaggia e spietata energia […] senza fermarci dinanzi a nulla. […] sono giunto alla conclusione inequivocabile della necessità di attaccare adesso con la massima decisione e spietatezza i preti […] e vincere la loro resistenza con una brutalità tale che non la dimenticheranno per decenni. Quanto più clero e borghesia reazionari giustizieremo per questo, tanto meglio» (Lettera segreta al Politbjuro del 19 marzo 1922) (18). «Il tribunale non deve eliminare il terrore; prometterlo significherebbe ingannare se stessi o ingannare gli altri; bisogna giustificarlo e legittimarlo sul piano dei principi, chiaramente, senza falsità e senza abbellimenti» (1922) (19).
La risoluzione sui campi di concentramento è del maggio 1918; quella sul «terrore rosso» del 5 settembre 1918; quella sugli ostaggi del 15 febbraio 1919. Gli stessi sistemi sono stati applicati ovunque il comunismo – e non Stalin – abbia conquistato il potere: dalla Spagna del Fronte Popolare (1934-1939), alla Cina; dall’Etiopia del colonnello Hailé Mariam Menghistu, a Cuba; dall’Europa centro-orientale, al Sud Est asiatico, e così via. È un’unica storia di orrore e morte, terrore e miseria. D’altra parte, i «padri fondatori» l’avevano promesso: «I comunisti ricusano di celare le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro scopi possono attuarsi solo tramite l’abbattimento violento di tutto l’ordinamento sociale sin qui esistente. Le classi dominanti tremino di fronte a una rivoluzione comunista» (20). E se il messaggio non fosse chiaro, viene accuratamente precisato. Si tratta «semplicemente» del fatto che «questa persona [“il proprietario borghese”] senz’altro deve essere abolita» (21). Così Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895) nel Manifesto dei comunisti del 1848. Se pure fosse stato necessario, i fatti, la marxiana «prassi», si sono incaricati di dare l’interpretazione autentica di simili «opinioni» e «intenzioni». Insomma, come ha scritto Vladimir Bukovskij, che più che averlo conosciuto lo ha «saggiato», il socialismo reale «[…] era disumano non perché perseguitava gli uomini […] occupava i paesi limitrofi e minacciava il mondo intero, ma proprio per la ragione opposta: il regime faceva quelle cose perché lui era disumano». Ed era disumano perché «l’ideologia comunista era una fonte di male» (22), o, come dice Solženicyn, «un cancro» (23).
Il professor Gasparini, dunque, nella sua Introduzione spiega bene come la Rivoluzione uccida non per quello che le sue vittime hanno fatto e fanno, e meno che meno per una deviazione psicotica di tipo sadico dei suoi attori. Essa uccide per quello che le persone sono, «pues el delito mayor / del hombre es haber nacido» («poiché il delitto maggiore / dell’uomo è d’essere nato») (24), soprattutto se è nato nella classe, nella razza, nella nazione sbagliate. E perciò gli «utopisti coercitivi», guidati dall’«idea» che ha individuato la causa del male nel mondo – in primo luogo quello stesso Dio che l’ha creato male –, ne organizzano la chirurgica rimozione. Allo scopo, istituiscono, una volta impadronitisi del potere, una burocrazia che trasforma in attività di routine la bonifica sociale e la totale «ricostruzione» («ri-creazione») della Città, per trasformarla in «stampo» dell’Uomo e del Mondo Nuovi, finalmente redenti e per «mille anni» perfetti e paradisiaci. È pertanto il «progetto» stesso, cioè l’ideologia che lo alimenta, fin dalla fondazione, come dichiara apertamente il Manifesto, ad avere la pretesa di aver individuato le categorie – che per i comunisti sono di tipo sociale e religioso-culturale, per altri anche etnico-razziali – di uomini da eliminare per risanare il mondo. Ma, sebbene i Rivoluzionari fin dall’inizio ci diano dentro con impegno per estirpare il male dalle radici, né l’Uomo né il Mondo Nuovi, e meno che meno il paradiso, si profilano all’orizzonte. È allora il turno dei «capri espiatori» dell’inevitabile fallimento: altre «fiumane» (25) in marcia verso l’universo concentrazionario, luogo tipico della Rivoluzione, in cui lo sterminio viene pianificato secondo i canoni moderni e tecnocratici della produzione industriale e perciò «razionali». «Espropriazione, concentramento, deportazione, le “unità mobili di sterminio”, l’esecuzione giudiziaria e lo sfruttamento del lavoro forzato fino alla totale consunzione fisica favorita dalla denutrizione e dal freddo»: questi, secondo Besançon (26), i tempi e i modi tipici del potere comunista nella sua azione di distruzione fisica del «nemico di classe»: di quella morale, che ha causato la «catastrofe antropologica» dei sopravvissuti, rimando ad altra occasione.
Stupisce, però, che un osservatore così acuto come il professor Gasparini inserisca nella sua Introduzione, fra gli esecutori del crimine Rivoluzionario nel XX secolo, che così bene descrive e stigmatizza, accanto ai comunisti vari, ai nazi[onalsociali]sti e ai fascisti – e anche per questi ci sarebbe da discutere –, il generale Francisco Franco Bahamonde (1892-1975) e i non meglio identificati «franchisti». Appare davvero problematico ritenere che il Caudillo perseguisse – come è invece giusto dire che la perseguivano comunisti e nazionalsocialisti – la realizzazione di una «modernizzazione intesa […] come affrancamento dalla tradizione, trasposizione al futuro di una nuova religione “secolarizzata” […] come inizio di una nuova e millenaria era» (p. 10), e che mirasse – come gli «altri» miravano – alla reductio ad unum della società, con l’eliminazione di ogni altra istituzione e corpo intermedio fra il singolo e lo Stato. Se la Rivoluzione è anche – come è, e come giustamente la descrive il professor Gasparini – «tecnica del futuro», progetto ideocratico di un Uomo e di un Mondo Nuovi, «utopia coercitiva» del paradiso in terra con esclusione di ogni altra fede, soprattutto se rivolta al trascendente. Se è azione «catartica» e violenta sull’esistente riottoso alla propria trasformazione, e in concreto nei confronti di milioni di uomini perseguitati per il fatto stesso che esistono, pur non essendo previsti dal «progetto» e condannati dall’ideologia, e perché «sordi» al richiamo dell’ artefice della storia. Se la Rivoluzione è, come è, tutto questo, allora inserire Franco fra i «rivoluzionari», e quindi tra i «colpevoli» degli effetti tragici di tali propositi e azioni, appare quasi «convenzionale», e può essere spiegato solo come una sorta di riflesso condizionato da «correttezza politica». Infatti, un simile giudizio è lontanissimo dalla realtà personale, del pensiero e dell’agire politico di Franco, a prescindere dall’opinione che si abbia dell’uomo e della sua parabola storica.
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A sua volta, il dossier messo a disposizione dei lettori (pp. 19-120) contiene tra i numerosi atti della procedura (se ne contano trentotto) i dieci verbali d’interrogatorio (quasi sempre notturno), le note delle spie comuniste, che sorvegliavano fin dal 1928 i frequentatori – quorum l’inquisito – di uno studio odontoiatrico di Wilno ritenuto covo di cospiratori monarchici e contro-rivoluzionari, il verbale delle dichiarazioni del figlio primogenito del prigioniero, Anatolij, ingenuamente entrato nell’Urss nel 1935 da comunista, e immediatamente fucilato. Soprattutto contiene i tratti di penna che segnano il destino di un uomo fino ad allora tranquillo e pacifico, e, quel che più conta, innocente di tutto quello che il senso comune intende come «colpa». Ma «colpevole» di attività anti-sovietica – in realtà, «anti-sovietica» era la sua origine sociale, la sua stessa esistenza. E perciò «condannato» ad otto anni di Itl, «campo correzionale di lavoro», dal quale il povero Aleksej Aleksandrovič non tornerŕ più, nemmeno da morto. Otto anni – in concreto una condanna a morte – inflitti con tre frettolose annotazioni apposte e sottoscritte in tempi diversi dai tre componenti dell’Oso a margine dell’atto, di cui possiamo «ammirare» anche la riproduzione dall’originale, con le «conclusioni dell’ accusa» (p. 88).
Le circolari successive dell’Nkvd, emanate nel 1940, quando Wilno era divenuta Vilnius, siccome la città era stata assegnata dai sovietici alla Lituania, e poi che questa aveva ricevuto l’onore di essere ammessa tra le Repubbliche Socialiste Sovietiche – non senza un «aiutino» dall’Armata Rossa –, precisarono che i soggetti «anti-sovietici» da «liquidare» dovevano essere individuati, tra l’altro, «in base sia al loro stato sociale […] sia alle convinzioni religiose» (p. 152). Per Argamakow, quindi, non ci sarebbe stata comunque speranza, essendo d’origine nobile – e perciò appartenente alla classe degli «sfruttatori», anche se non aveva mai «sfruttato» nessuno –, e credente.
Il fascicolo si conclude con la vergognosa corrispondenza «segreta» tra i «colonnelli burloni» del Kgb di Mosca e di Minsk (pp. 113-119). Nel 1961, «in piena era di Kruščiov [Nikita Sergeevič (1894-1971)], del disgelo e delle prime timide riabilitazioni» (p. 154), disposero che alla richiesta promossa dalla vedova e inoltrata attraverso la Croce Rossa Internazionale di avere notizie di Aleksandr Aleksandrovič, si dovesse rispondere, ovviamente mentendo, «che non è noto dove si trovi ARGAMAKOW A. A.» (p. 117). L’ultimo colpo: segregato per sempre anche da morto, e nessuna notizia vera, né sul modo né sulla data della sua fine.
Fra gli annessi al dossier, un interessante «glossario degli acronimi» e una rassegna degli articoli dei codici penali sovietici russo e bielorusso del 1922, del 1926 e del 1961, concernenti la «repressione delle attività anti-sovietiche e controrivoluzionarie e dei delitti contro lo Stato» (pp. 127-138).
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La lettura degli atti del dossier non appare interessante soltanto per lo studioso o comunque per il tecnico della materia. Ed essi non costituiscono soltanto un reperto unico nel genere – il che basterebbe di per sé a conferire valore insolito alla pubblicazione –, ma rappresentano un modello.
È il modello di come il persecutore di tutti i tempi – sia esso «giudice», «pubblico ministero», commissario politico o «inquirente» della polizia politica che si dica –, anziché risalire dal fatto, e dal suo rapporto con la condotta di una persona, all’ipotesi di reato, discenda da questa – tante volte pura «scatola vuota», in assenza di ogni tipizzazione ragionevole – alla persona, il cui destino è segnato dall’origine sociale – ossessivamente richiamata in ogni atto –, e/o dalla religione che pratica, dalle idee che professa, o altrove dalla «razza» cui appartiene.
«Istruttoria e processo non sono che forme giuridiche, non possono cambiare la tua sorte decisa in anticipo. Se dovete essere fucilati, lo sarete anche se siete innocenti. Se dovete essere assolti, lo sarete, lavati da qualunque macchia, anche se eravate colpevolissimi» (così il giudice istruttore Mironenko, rivolto al condannato a morte Babic, nel lager di Dzidda, 1944) (27). Perché, come fin dal 1° novembre 1918, aveva scritto il cekista Martin Lacis (1888-1937), «noi non stiamo combattendo una guerra contro gli individui. Stiamo sterminando la borghesia come classe. Nel corso delle indagini non cercate di dimostrare che il soggetto ha detto o fatto qualcosa contro il potere sovietico. Le prime domande che dovete porvi sono a quale classe appartiene, qual è la sua origine. Le risposte a queste domande devono determinare il destino dell’accusato. In ciò risiedono il significato e l’essenza del terrore rosso» (28). Tanto, come sosteneva il pubblico accusatore presso la Corte Suprema dell’Urss, Nikolaj Vasil’evič Krylenko (1885-1940) «le finezze giuridiche non occorrono perché non occorre chiarire se l’imputato sia colpevole o innocente: il concetto di colpevolezza, vecchio concetto borghese, è stato adesso sradicato» (29).
Veniamo così posti plasticamente al cospetto di un potere che giustifica se stesso, perché l’«idea» (meglio, l’ideologia) che lo anima si pretende salvifica. Esso, perciò, si ritiene autorizzato a ricorrere ad ogni mezzo – anzi, qualifica il mezzo in funzione dal servizio che rende al «progetto»: «la verità è rivoluzionaria» significa che è vero solo ciò che giova alla Rivoluzione a giudizio dei Rivoluzionari – per affermarsi, conservarsi e perseguire i propri scopi. La sua azione è per definizione «giusta», al di là di ogni concezione «borghese» di giustizia.
Ma allora, perché ricorrere a tutte quelle «formalità» – si pensi solo alle sette richieste di proroga della carcerazione preventiva (il cui termine massimo è un mese!) in dieci mesi, dall’esito scontato, ma che farebbero sorridere un nostro Pm, che ha a disposizione ben altri tempi per ammorbidire un «indagato» – che hanno gonfiato il dossier? Perché gli interrogatori notturni – defatiganti, lo si dice senza ironia, anche per l’inquirente –, le varie formule procedurali, l’attenzione alle imputazioni e al nomen juris di reati che si sa inesistenti, in un contesto in cui non v’è difesa e non v’è processo perché, anche oltre l’Oso, non v’è giudice terzo ed imparziale, non v’è Appello, non v’è Cassazione?
Una risposta potrebbe essere nel fatto che la Rivoluzione si pretende Weltgericht, «giudizio del mondo», che mette in stato di accusa per purificarlo, e perciò deve – DEVE – agire paludata delle vesti del diritto e del processo. E lo fa fin dal tempo del Grande Terrore giacobino, come spiega il grandissimo giurista sardo Salvatore Satta (1902-1975), non meno grande come scrittore, dimostrando come il processo sia così trasformato in «azione rivoluzionaria» (30).
* * *
Igor Argamante illustra, nella sua intensa postfazione che chiude il volume (pp. 141-157), il modo in cui l’esistenza di suo padre è stata cancellata, e come i colpevoli di tutto questo sono stati di fatto «amnistiati» dalla coscienza storica contemporanea, perché una sorta di «amnesia» collettiva ha coperto le loro colpe. E quando pure se ne parla, se la risposta non è un cenno di fastidio, analogo a quello con il quale nella calura estiva si scaccia una mosca petulante, si pretende comunque di discorrerne «in modo contenuto ed educato ed in ambiente ristretto» (p. 157).
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Sia Morte da cani, che la solo apparentemente più arida (ma tali non sono certamente l’Introduzione e la Postfazione) pubblicazione del Dossier n. 51879, meritano non poca attenzione, e soprattutto un ringraziamento all’autore e a chi gli ha consentito di pubblicarle. Si tratta di opere uniche, per le ragioni già evocate, ma anche perché si tratta della prima testimonianza da parte del figlio di una vittima dei crimini del comunismo. È la prima testimonianza «ereditaria». In modo tipicamente tradizionale, cioè con pietà filiale, Igor Argamante Argamakow ha ricevuto una consegna e non l’ha tenuta per sé, ma si è preoccupato di trasmetterla, in qualche modo di «eternarla».
I suoi lavori, fra tante cose, aiutano a capire che le decine di milioni di vittime del comunismo sono tanti Aleksej Aleksandrovič Argamakow, uomini veri, in carne ossa e affetti, e non numeri, del cui sterminio è diretta responsabile l’idea – che nega loro il diritto all’esistenza storica, e con il materialismo anche la stessa dignità di persona – e non già un qualche preteso tradimento di essa. La volontà di negare l’ordine della creazione e di ricostruire il mondo senza Dio, anzi contro Dio, si è tradotta inevitabilmente, come è proprio dell’utopia, in un’azione contro l’uomo (31). Lezione importante in un’epoca in cui, da parte di troppi, non si vuole accettare a proposito del comunismo – ma non solo – che, come ancora Besançon scrive, «quando si pretende di applicare alla realtà una sua concezione falsata, i risultati sono devastanti. La causa ultima del disastro è quindi un’idea inetta che si è impadronita di cervelli inetti o resi tali da questa idea. Grande mistero! Ma spiega perché Dzeržinskij [Feliks Edmundovič, 1877-1926] ammetteva già nel 1917 che per costruire il socialismo sarebbe stato necessario “sterminare alcune classi” e Zinov’ev [Gregorij Evseevič Apfelbaum, detto Z. (1883-1936)] parlava di “annientare” dieci milioni di russi su cento» (32).
Giovanni Formicola

Note (1) Aleksandr Isaevič Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, Aleksandr Isaevic' Solz'enicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, trad. it., 3 voll. in 6 tomi, Mondadori, Milano 1975, vol. II, p. III e p. 127. (2) Ibid., p. 8. (3) Cit. ibid., p. 12. (4) Cfr. Varlam Tichonovič Ŝalamov (1907-1982), I racconti di Kolyma, trad. it., Einaudi, Torino 1999. (5) A. I. Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, cit., vol. II, p. 8. (6) Cfr. Centro Studi «Memorial» (Mosca), Il sistema dei lager in URSS, trad. it., in GULag. Il sistema dei lager in URSS, trad. it., a cura di Marcello Flores e Francesca Gori, Mazzotta, Milano 1999, pp. 25-27. (7) Cfr. Alain Besançon, Novecento, il secolo del male. Nazismo, comunismo, Shoah, trad. it., Ideazione, Roma 2000, p. 42. (8) Cfr. Igor Argamakow, Morte da cani. Piccola storia stalinista, il Mulino, Bologna 2000. (9) Dante Alighieri (1265-1321), La Divina Commedia, Inferno, Canto V, v. 28. (10) Cfr. Zygmunt Bauman, Modernità e Olocausto, trad. it., il Mulino, Bologna 1992, p. 31 e passim. (11) Cfr. I. Argamakov Argamante (a cura di), Archivio KGB di Vilnius (Ltsr). Dossier N° 51879, con una introduzione di Alberto Gasparini, Isig. Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia, Gorizia 2003. Tutti i riferimenti tra parentesi nel testo rimandano a questo volume. (12) Si tratta «di quello straordinario paese […], geograficamente stracciato in arcipelago, ma psicologicamente forgiato in continente, paese quasi invisibile, quasi impalpabile, abitato dal popolo dei detenuti» (A. I. Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa,cit., vol. I, Premessa, p. 10). Besançon sostiene che nel GULag fossero ristretti i prigionieri a «regime duro»; nel resto dell’Urss, quelli a «regime ordinario» (cfr. A. Besançon, Novecento, il secolo del male. Nazismo, comunismo, Shoah,cit., p. 38). Il termine «GULag» è l’acronimo di Glavnoe Upravlenie Lagerej (Amministrazione Centrale dei Lager). (13) Cfr. Rael Jean Isaac; e Erich Isaac, The Coercitive Utopians, Social Deception by America’s Power Players, Regnery Gateway, Chicago (USA) 1983. (14) Vladimir Kostantinovič Bukovskij, Gli archivi segreti di Mosca, trad. it., Spirali, Milano 1999, pp. 787-788. (15) Cit. in Victor Serge (1890-1947), L’anno primo della rivoluzione russa, trad. it., Einaudi 1991, p. 29. (16) Cit. in A. I. Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, cit., vol. I, p. 43. (17) Cit. in Pietro Sinatti, L’atroce logica dell’annientamento, in Il sole-24 ore, Milano 2-2-1997. (18) Cit. in Richard Pipes, Il regime bolscevico. Dal Terrore rosso alla morte di Lenin, trad. it., Mondadori, Milano 2000, pp. 405-406. (19) Cit. in Mihail Geller (1922-1997); e Aleksandr Nekrič, Storia dell’URSS dal 1917 a Eltsin, trad. it., Bompiani, Milano 1997, p. 159. (20) Karl Marx; e Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, trad. it., Newton Compton, Roma 1977, p. 105.(21) Ibid., p. 74. (22) V. K. Bukovskij, op. cit., pp. 741-42. (23) A. I. Solženicyn, I pericoli che incombono sull’Occidente a causa della sua ignoranza della Russia, in Idem, L’errore dell’Occidente. Gli ultimi interventi su comunismo, Russia e Occidente con, in appendice, il «discorso di Harvard», trad. it., La Casa di Matriona, Milano 1980, p. 20. (24) Pedro Calderòn de la Barca (1600-1681), La vita è sogno, vv. 111-112. (25) Cfr. A. I. Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, cit., vol. I, pp. 40-107. (26) Cfr. A. Besançon, Novecento, il secolo del male. Nazismo, comunismo, Shoah,cit., pp. 31-43. (27) Cit. in A. I. Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, cit., vol. I, p. 159. (28) In Krsnij Terror («Terrore Rosso»), periodico della Ceka, cit. in Cristopher Andrew; e Oleg Gordiewskij, La storia segreta del KGB, trad. it., Rizzoli, Milano 1991, p. 58. (29) Cit. in A. I. Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, cit., vol. I, p. 313. (30) Cfr. Salvatore Satta (1902-1975), Il mistero del processo, Adelphi, Milano 1994, pp. 11-37, in particolare, p. 37. (31) «Un mondo senza Dio si costruisce, presto o tardi, contro l’uomo» (Giovanni Paolo II, Messaggio ai giovani di Francia, Parigi, 1 giugno 1980). Cfr. anche: «Il tentativo di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre più sull’ orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’ uomo» (Joseph Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, trad. it., Cantagalli, Siena 2005, p. 62). La tesi viene successivamente così articolata e argomentata, questa volta con l’autorità pontificia: «Chi esclude Dio dal suo orizzonte falsifica il concetto di “realtà” e, in conseguenza,, può finire solo in strade sbagliate e con ricette distruttive. La prima affermazione fondamentale è, dunque, la seguente: Solo chi riconosce Dio, conosce la realtà e può rispondere ad essa in modo adeguato e realmente umano. La verità di questa tesi risulta evidente davanti al fallimento di tutti i sistemi che mettono Dio tra parentesi» (Benedetto XVI, Discorso all’inaugurazione della V Conferenza generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Santuario dell’Aparecida, Aparecida do Norte (San Paolo del Brasile), 13-5-2007, in Supplemento a L’Osservatore Romano del 2-6-2007, p. 9). In questi pronunciamenti si sente l’eco di Henri De Lubac (1896-1991): «Non è poi vero, come pare si voglia dire qualche volta, che l’uomo sia incapace di organizzare la terra senza Dio. Ma ciò che è vero è che, senza Dio, egli non può, alla fine dei conti, che organizzarla contro l’uomo» (Henri De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, 1945, trad. it., Morcelliana, Brescia 1988, p. 9. (32) A. Besançon, La guerra dei bolscevichi contro i contadini, in La Vandea, con una Prefazione di Raoul Girardet e un messaggio di Pierre Chaunu, trad. it., con una Premessa di Sergio Romano e un saggio di Jules Michelet, Corbaccio, Milano 1995, pp. 219-233 (pp. 220-221).
http://www.totustuus.net/modules.php?name=News&file=article&sid=2792

sabato 1 agosto 2009

De Magistris

Le furbate del compare di Di Pietro
Davide Giacalone
Pubblicato il giorno: 31/07/09
de magistris
Se Luigi De Magistris non esistesse, si dovrebbe inventarlo. Egli svolge un ruolo sociale di grande importanza, consistente nel dimostrare perché il prestigio della magistratura è in inarrestabile crollo. Critico spesso i costumi della politica, ne denuncio quelle che mi sembrano imperdonabili insufficienze, ne detesto le cadute di stile. Qualche volta mi coglie il dubbio d'esagerare, qualche altra temo d'essere troppo reticente, rimproverandomi di non utilizzare giudizi ancor più severi. C'è una formazione politica, però, in cui non riesco a trovare un solo lato positivo, un solo aspetto convincente, una sola parola che non desti ripulsa istituzionale: l'Italia dei Valori. Gioca un ruolo nefando nei confronti della sinistra, trattenendola in atteggiamenti reazionari.Rappresenta un rigurgito dell'Italia peggiore. Da ultimo, ne è dimostrazione De Magistris, che dall'esibizionismo giudiziario, dalle inchieste a mezzo stampa, passa direttamente ad un seggio europeo, pronunciando parole bugiarde. Aveva detto che si sarebbe dimesso dalla magistratura, invece ha chiesto l'aspettativa, che sarebbe la versione burocratica del tenere il piede in due scarpe, del fare i faziosi e pretendersi al di sopra delle parti. Il suo capo, del resto, Antonio Di Pietro, si dimise, ma solo per non essere buttato fuori. I due sono gemelli nell'avere utilizzato il ruolo di pm allo scopo di promuovere e propagandare se stessi, adeguandosi all'idea che il diritto s'incarni in quello proprio di mettersi in mostra ed incassare al più presto il corrispettivo della fama così conquistata. Dicono che, adesso, i due siamesi si trovino in un qualche contrasto. Sarebbe ragionevole, giacché non è facile far convivere gente che si considera al servizio esclusivo della propria scalata sociale.Circa la bugia detta da De Magistris, si potrebbe essere indulgenti ed osservare che la falsità è intrinseca alla politica, e le promesse violate ne sono il cacio sui maccheroni. Non la penso così: la politica è materia di alto valore, il praticarla dovrebbe essere un onore, le sue finalità possono essere nobili. A patto non s'empia d'ignobili. Delle bugie di De Magistris, però, non vale la pena occuparsi più di tanto, il fondo limaccioso su cui poggia il partito che lo ha candidato esclude se ne possa ragionare seriamente. Interessa, invece, l'aspetto generale: ai magistrati che si candidano deve essere impedita l'aspettativa, chi intraprende la carriera politica non deve più potere tornare indietro.Risponderanno che, così, si viola la Costituzione, che un magistrato deve avere, almeno, gli stessi diritti politici degli altri. È vero il contrario: la Costituzione prevede esplicitamente che i diritti di taluni abbiano una regolamentazione particolare, quindi si tratta di applicarla, smettendo di violarla. L'articolo 98 è chiarissimo: «Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d'iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera (?) i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici (?)». Ed è giusto che sia così, perché i cittadini non devono temere d'essere inquisiti o giudicati da gente presa da passione politica. I Costituenti, invece, vengono trattati come degli scemi, pertanto non solo non si è fatta la legge necessaria ad applicare questo precetto, ma s'immagina, come nel caso di De Magistris, che non sia violazione della Costituzione l'essere stati eletti, quindi l'essersi candidati per un partito, se prima non s'è presa la tessera. Un imbroglio, reso ancor più grave dal non volere neanche rinunciare ai privilegi dell'anzianità e del futuro stipendio, quindi della doppia pensione. Non si tratta, sia chiaro, del solo De Magistris. Ci sono altri casi, ma tutti, senza nessuna eccezione, scandalosamente incostituzionali.I magistrati hanno una montagna di garanzie, a tutela della loro indipendenza, anche i cittadini hanno diritto a qualche garanzia. La Costituzione ne ha descritto alcune, ma i diretti interessati hanno preso quelle pagine e ne hanno fatto aeroplanini di carta, da tirarsi durante le ore di ozio fra una ripresa tv e le foto per i rotocalchi, in attesa che qualche cittadino arrestato consegni la possibilità di divenire preziosi sul mercato elettorale. Questa storia è parte della malagiustizia italiana, ma evidenzia anche una gravissima corruzione costituzionale.
Grazie a De Magistris, la cosa è ancora più chiara.
www.davidegiacalone.it

venerdì 31 luglio 2009

Obamacare

La sanità di Obama costa troppo e non piace neppure ai democratici
di Karl Rove
27 Luglio 2009
I sondaggi d’opinione stanno iniziando a diventare ostili al piano di assistenza sanitario di Obama. E anche il calendario politico.
Lunedì 20, un sondaggio Washington Post/ABC riportava che il 49 per cento degli americani approvava il modo in cui il presidente stava portando avanti il progetto, contro un 44 per cento di gente che non lo approvava. Ma quello che tanti hanno mancato di osservare è che coloro che disapprovano fermamente la politica sanitaria del presidente sono il 33 per cento, e superano di molto quelli che la approvano senza riserve (25 per cento). Un dato che fa presagire un’ulteriore perdita di consensi in futuro. Già adesso, il 49 per cento di indipendenti si schiera contro il presidente, in netta crescita dal 30 per cento di aprile: un impressionante cambiamento, per essere avvenuto in sole 11 settimane.
Obama sta perdendo terreno anche in economia. Attualmente, coloro che disapprovano con forza il suo operato in questo campo superano quelli che lo approvano caldamente (35 per cento contro 29 per cento), così anche per il deficit (38 per cento contro 19 per cento) e la disoccupazione (31 per cento contro 26 per cento). Giovedì, la Gallup ha stimato la popolarità di Obama al 55 per cento, in diminuzione dal 60 per cento di poche settimane fa e più bassa del 56 per cento che George W. Bush aveva a questo punto del suo mandato.
I sondaggi stanno crollando a causa del flusso di cattive notizie che arrivano dalle proposte obamiane in merito alla riforma sanitaria. Una parte di queste notizie è arrivata da uno studio realizzato dal Lewin Group per la Heritage Foundation, reso noto il 17 luglio. Si prevede che, se la riforma voluta dalla Casa Bianca diventasse legge, 83,4 milioni di persone – circa la metà di coloro che sono titolari di un’assicurazione sanitaria privata – perderebbero la loro polizza, perché i datori di lavoro annullerebbero le polizze collettive stipulate a favore dei dipendenti. Obama ha promesso che sarà possibile mantenere la propria polizza, ma la scarsa attenzione concessa dal presidente su questo punto fa immaginare che i rischi non siano affatto scomparsi.
Un altro grappolo di cattive notizie per Obama è arrivato la scorsa settimana quando i governatori democratici di Colorado, Tennessee, New Mexico e Washington si sono uniti ai colleghi del GOP (Grand Old Party, i repubblicani – ndr) che all’incontro estivo della National Governors Association hanno attaccato l’intenzione di spostare milioni di famiglie al Medicaid (l’assistenza sanitaria pubblica offerta alle persone a basso reddito, introdotta nel 1965 dal presidente democratico Lyndon Johnson assieme al Medicare, l’assistenza sanitaria a carico dello stato per gli over 65 – ndr). Ciò potrebbe comportare per i singoli stati una spesa di 440 miliardi di dollari in dieci anni.
Ma la notizia più dannosa è arrivata dal direttore del Congressional Budget Office (CBO), Douglas Elmendorf, il quale ha dichiarato la scorsa settimana che la riforma sanitaria voluta dalla Casa Bianca “non ridurrebbe in modo significativo la traiettoria di spesa federale per la salute”. Ciò ha mandato in frantumi l’argomento principale avanzato da Obama, ossia che la riforma sanitaria porterebbe a una diminuzione dei costi. In una lettera del 17 luglio, Elmendorf ha aggiunto che la riforma porterebbe a un “incremento netto del deficit federale pari a 239 miliardi” nei prossimi dieci anni. Si tratta di una stima per difetto, perché vi si assume che nel frattempo il Congresso abbia aumentato le tasse per un ammontare complessivo, in quei dieci anni, di 583 miliardi di dollari.
Charlie Rangel, presidente del Ways and Means Committee (una commissione congressuale preposta a stilare la legislazione fiscale legata alla previdenza sociale, in particolare a Medicaid e Medicare – ndr), ha detto che finanzierà la riforma di Obama alzando le tasse a chi guadagna più di 280 mila dollari l’anno (350 mila per le coppie). Gran parte di questa stangata si abbatterà sui piccoli imprenditori. Persino ai democratici non piace una tale soluzione: 21 sui 39 deputati neoeletti dell’Asinello hanno sottoscritto una lettera contro questa impennata fiscale. Molti di loro vengono da quei distretti dove Bush o McCain hanno fatto campagna elettorale nel 2008. Obama ha preferito far finta di nulla, dicendo che quella sovrattassa si limiterà a far sì che qualcuno paghi “un po’ di più”.
Il comitato nazionale democratico ha cominciato a fare pressioni sui rappresentanti democratici affinché diano il loro voto alla riforma, marcando stretto quei deputati nel Ways and Means Committee della camera bassa che hanno sollevato domande sul versante fiscale della questione. E’ difficile pensare a un segnale più chiaro di debolezza dell’attacco ai membri del proprio stesso partito.
Lo staff di Obama sta affrettando i tempi per avere la legge approvata entro agosto, prima che le ferie permettano ai congressisti di tornare a casa e diano loro l’opportunità di sentire cosa ne pensa la gente. Americans for Prosperity e altri stanno già organizzando incontri pubblici dedicati al tema. Mi immagino che deputati e senatori avranno molto di cui parlare con i loro elettori in merito alla sanità che diventa proprietà del governo, alle nuove tasse sull’energia, al fallimento dello “stimolo”, al deficit record e alla crescente disoccupazione.
Karl Rove è stato consigliere capo e vicecapo dello staff del presidente George W. Bush
Tratto da Wall Street Journal
Traduzione di Enrico De Simone
http://www.loccidentale.it/articolo/la+riforma+sanitaria+di+obama+costa+troppo+e+non+piace+neanche+ai+democratici.0075814

Succede oggi a Rubaix, in Francia. Quando in Italia?

28.07.2009

Riportiamo le dichiarazioni di Mohamed Sabaoui, giovane sociologo dell'università cattolica di Lille, d'origine algerina, naturalizzato francese, indicative di Eurabia in arrivo :

La nostra invasione pacifica a livello europeo non è ancora giunta a termine .. Noi intendiamo agire in tutti i paesi simultaneamente. Siccome ci date sempre più spazio , sarebbe stupido da parte nostra non approfittarne. Noi saremo il vostro Cavallo di Troia. I Diritti dell'uomo di cui vi proclamate autori , ora vi tengono in ostaggio. Così, per esempio , se voi doveste parlarmi in questo modo in Algeria , o in Arabia Saudita , come stò facendo ora io con voi , sareste immediatamente arrestati . Voi Francesi non siete capaci di imporre rispetto ai nostri giovani. Perché dovrebbero rispettare un paese che capitola davanti a loro ? Si rispetta solo chi si teme . Quando avremo il potere noi , non vedrete più un solo immigrato dar fuoco a una macchina o svaligiare un negozio........ Gli Arabi sanno che la punizione inesorabile per un ladro è, da noi , il taglio della mano .
E sempre lo stesso Mohamed Sabaoui in un'intervista recente : “”Le leggi della vostra repubblica non sono conformi a quelle del Corano e non devono essere imposte ai musulmani che possono essere governati solo dalla Sharia . Noi quindi dovremo agire per prendere il potere che ci è dovuto. Cominceremo da Roubaix che è attualmente musulmana al 60%. Alle prossime elezioni municipali , mobilizzeremo i nostri effettivi e il prossimo sindaco sarà musulmano. Dopo aver negoziato con lo Stato e la Regione, dichiareremo Roubaix enclave musulmana indipendente e imporremo la Sharia(la legge di Dio) a tutti gli abitanti . La minoranza cristiana avrà lo statuto di Dhimmi . Sarà una categoria a parte che potrà riscattare libertà e diritti col pagamento di una tassa speciale. Inoltre faremo ciò che serve per portarli alla nostra religione . Decine di migliaia di francesi hanno già abbracciato l'Islam di loro volontà , perché mai i cristiani di Roubaix non dovrebbero farlo ? Attualmente all'Università di Lille organizziamo le brigate della fede, incaricate di convertire gli abitanti di Roubaix riluttanti , cristiani o ebrei che siano , per farli entrare nella nostra religione, perché Dio lo vuole ! Noi siamo i più forti perché Dio l'ha voluto . Noi non abbiamo l'obbligo cristiano di portare aiuto all'orfano, al debole , all'handicappato . Noi possiamo e dobbiamo invece schiacciarli se costituiscono un ostacolo , soprattutto se sono infedeli.
Mohamed Sabaoui ripete questi concetti fin dal 1996 quando aveva 25 anni ed era studente .Ora è sociologo ma anche cofondatore del “Comitato per la Difesa dei musulmani di Francia “ quindi rappresenta il famoso Islam delle moschee.
Questi concetti sono stati più volte ripetuti in interviste ,articoli e libri . E non crediate siano il frutto di un pensiero isolato , se l'islam diventasse maggioritario in Europa , di questo passo è previsto nel 2050 se non reagiamo , è l'insieme dei musulmani che adotterà questi concetti e questo pensiero e siate sicuri che il loro modo di agire sarà pari all'odio che gli ispiriamo .
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=30387

martedì 28 luglio 2009

L'inno nazionale: una libera traduzione del testo

Italiani, fratelli in una stessa Patria!
È giunta la nostra ora, finalmente.
L’Italia si è risvegliata da un sonno troppo lungo e ha indossato nuovamente l’elmo che fu di Scipione l’Africano, l’eroe di Zama.
Se riusciremo a vincere?
Ma non vedete che la dea Vittoria ha scelto di offrirsi alla nuova Italia, affinché rinnovi la gloria di quella Roma antica di cui essa stessa fu schiava, per volere divino?
Considerate la nostra condizione: da secoli siamo schiacciati sotto il tallone straniero, da secoli abbiamo perduto dignità e onore. Questo perché non siamo un vero popolo, perché la nostra Patria è smembrata in sette stati, sette confini, sette insegne. Ma se ci raccogliamo attorno a un unico vessillo di libertà, se ci affidiamo tutti alla medesima speranza di libertà, allora capiremo che è scoccata l’ora di divenire una cosa sola, un’anima sola.
Uniamoci nella concordia, amiamoci nella fratellanza: soltanto attraverso l’unione, soltanto grazie all’amore riusciremo a scorgere e a intraprendere il cammino che il Signore ha voluto destinarci. Giuriamo, allora, di far libera la nostra Patria: se lo faremo, e se Dio ci renderà uniti, nessuno sarà in grado di sconfiggerci!
Guardatevi attorno. Non vedete che ovunque, dalle Alpi alla Sicilia, si rinnova l’antico giuramento di libertà della Lega Lombarda contro il Barbarossa, che rese sacra la giornata di Legnano?
Non vi accorgete che ognuno di noi è degno di figurare, per generosità e coraggio, accanto a Francesco Ferrucci, colui che difese, nel 1530, la libertà di Firenze contro l’esercito imperiale di Carlo V?
Su di lui, ferito e prigioniero, si scagliò la furia omicida di Maramaldo, italiano al soldo straniero. Ma fece in tempo, Francesco, a scagliargli l’anatema del disprezzo – Tu uccidi un uomo morto – che avrebbe segnato per sempre, col marchio dell’infamia, il nome del suo uccisore.
Non capite che anche nei più giovani figli d’Italia cova l’animo e l’ardimento del figlio del popolo genovese, il Balilla?
Quel sasso scagliato dalla mano di fanciullo divenne un macigno e accese la rivolta che travolse gli Austriaci e li scacciò dalla Superba, giusto cento anni fa.
E non sentite che, oggi, ogni campana d’Italia sta battendo gli stessi rintocchi che, sei secoli fa, chiamarono i siciliani ai loro Vespri?
Gli eserciti mercenari d’Austria sono deboli come giunchi piegati dal vento, e la nera aquila bicipite d’Asburgo, una volta fiera e tracotante, è ormai una spennacchiata parodia di se stessa. È riuscita ancora, è vero, insieme con l’alleato russo, a straziare l’Italia e la fiera Polonia, bevendo il sangue che sgorgava dalle crudeli ferite. Ma quel sangue si è tramutato in veleno, dilaniandole il cuore.
È tempo di agire: ovunque ci si serri in armi, ogni cittadino si faccia soldato. E ciascuno sia pronto a morire, perché a chiamarci è stata la nostra Madre Italia!
GOFFREDO MAMELI
Genova, 1847

sabato 25 luglio 2009

Cattive Difesa?

Di Lisio: le responsabilità della sua morte non ricadono solo sui talebani
di Giovanni Marizza
25 Luglio 2009
Il 14 luglio 2009, in Afghanistan un ordigno esplode al lato della strada 517 e il caporalmaggiore Alessandro Di Lisio perde la vita. Ma se il mezzo investito dall’onda d’urto dell’esplosione fosse stato costruito a prova di IED (Improvised Explosive Device), il nostro militare oggi sarebbe ancora vivo.
E’ il 12 ottobre 1492. Le tre caravelle di Cristoforo Colombo, la “Nina”, la “Pinta” e la “Santa Maria”, veleggiano verso le Indie, o presunte tali. Alle due di notte un grido sveglia i marinai della “Pinta”: “Terra, terra!”. Chi grida è il marinaio andaluso Juan Rodriguez Bermejo, detto dagli amici Rodrigo De Triana, abbarbicato sulla coffa della nave. Oggi, in linguaggio militarese, lo chiameremmo il “coffista”. Rodrigo ha intravisto la terra illuminata dalla luna ed ha annunciato agli altri marinai della spedizione che la missione era compiuta. Le Indie erano a portata di mano. Anzi no, si trattava dell’America, ma poco importava.
Oggi a Siviglia, nel quartiere Triana che diede i natali a Rodrigo, un monumento lo raffigura in piedi sulla coffa, la mano destra aggrappata all’albero, la sinistra rivolta verso il nuovo continente, la bocca aperta nel grido rimasto famoso. Sul basamento, una scritta semplice ed eloquente in lingua spagnola: “Tierra, tierra!”
Pochi sanno che il Bermejo, di religione islamica, dovette convertirsi al cristianesimo per potersi imbarcare sulle caravelle del cristianissimo Re di Spagna, altrimenti nessuno lo avrebbero accettato. Un forte incentivo fu rappresentato dall’ingente premio in denaro che Cristoforo Colombo promise a colui che per primo avrebbe avvistato la terra agognata. Ma Rodrigo non ricevette alcun premio. I maligni spiegano il fatto sottolineando che Colombo, in fin dei conti, era genovese. E così, al ritorno dal suo lungo viaggio, a causa della delusione per il mancato pagamento della ricompensa promessa da Colombo, Rodrigo si riconvertì alla religione cui apparteneva suo padre. E la spedizione ritornò in Europa con un cristiano in meno e un musulmano in più.
Nel mezzo millennio successivo, la figura del “coffista” passò gradatamente di moda, fino a scomparire del tutto. L’invenzione della bussola, del sestante, del cannocchiale, la migliorata precisione delle carte nautiche, la radio, il radar, i satelliti, il GPS e tutte le più moderne diavolerie consentirono alla marineria di archiviare la benemerita figura del “coffista”, che oggi sarebbe assurda su qualsiasi nave da guerra o mercantile.
E’ il 14 luglio 2009. In Afghanistan, sulla strada 517, quella che collega Farah, una provincia nell’estremo ovest del Paese, con la Ring Road, il “grandissimo raccordo anulare” di asfalto che circonda tutto l’Afghanistan, un IED (Improvised Explosive Device) posto al lato della strada esplode al passaggio di un convoglio italiano. Il mezzo investito dall’onda d’urto dell’esplosione si ribalta. Per il militare che sporgeva dal mezzo, come Rodrigo sulla “Pinta” ben 517 anni fa, non c’è niente da fare. In quelle condizioni, se non è fatale l’onda d’urto dell’esplosione, lo sono gli effetti del ribaltamento del mezzo.
Il mezzo in questione viene spesso magnificato in quanto portatore di una innovazione avveniristica: un alloggiamento interno dotato di una piastra corazzata a forma di “V” che devia verso i lati gli effetti delle esplosioni. Ebbene, l’innovazione è talmente “avveniristica” che nel 1992, quando siamo andati in Mozambico a sostituire l’esercito zimbabwano che presidiava il corridoio di Beira, ci siamo accorti che gli Zimbabwani (e non, si badi bene, gli Israeliani, gli Americani o i Marziani, bensì gli Zimbabwani dello Zimbabwe) già possedevano da vari anni la stessa tecnologia. Lo strategico corridoio di Beira, a quel tempo, era percorso da pattuglie dell’ex Rhodesia del Sud a bordo di veicoli trasporto truppa dalla forma sagomata a V. Brutti a vedersi e somiglianti a strani animali preistorici (noi peacekeepers del contingente italiano dell’ONU li chiamavamo scherzosamente “blindosauri”), questi blindati erano particolarmente efficaci quando si trattava di attraversare tratti di terreno minato: se la mina scoppiava, l’onda d’urto che partiva da terra veniva deviata verso i lati delle fiancate ma non riusciva a bucare il fondo. E la squadra fucilieri che stava all’interno era salva.
Ma il Mozambico del 1992 (secolo scorso, millennio scorso) è diverso dall’Afghanistan del 2009. Oggi le mine non sono più a basso potenziale e non scoppiano più sotto la pancia dei mezzi quando ci si va a sbattere sopra, oggi gli IED sono ad elevato potenziale, magari a carica cava, e vengono posti ai lati delle strade, vengono perfettamente mimetizzati tanto da assomigliare a rocce qualunque e vengono azionati da lontano, elettricamente o via radio.
Se la tecnologia della corazza a “V” è in ritardo di un ventennio su un decoroso ma modesto esercito dell’Africa Australe, la ralla lo è di mezzo millennio rispetto alla coffa della “Pinta”. La ralla è quell’arnese circolare su cui ruota la mitragliatrice in torretta, azionata dal malcapitato rallista che per manovrarla si deve sporgere dal mezzo.
Questa procedura può essere utile per missioni di ordine pubblico in ambienti urbani e di bassa intensità, ma nulla può contro gli IED afgani provenienti dall’Iraq, dove sono stati testati, sviluppati, resi sempre più micidiali e poi esportati.
Inizialmente in Iraq i mezzi americani che pattugliavano il territorio erano anch’essi armati con una mitragliatrice in torretta protetta da uno scudo corazzato, manovrata da un mitragliere che stava seduto a cavalcioni su una cinghia basculante (come le strisce di plastica incrociate dei salvagente per bambini, su cui si accucciano i neonati alle loro prime esperienze balneari) che gli permetteva di sporgere dal veicolo soltanto dal torace in su. Man mano che la minaccia degli IED aumentava, quella cinghia basculante è stata battezzata “il sedile dell’uomo morto”.
Il passo successivo è stato quello - ovvio ma non per tutti - di adottare un sistema di comando dell’arma dall’interno del mezzo, oggi in vigore su quasi tutti i mezzi militari e non solo. Anche i veicoli in dotazione alle compagnie private di sicurezza come la “Blackwater”, infatti, hanno le mitragliatrici che vengono azionate da un operatore che sta all’interno del mezzo. Che i mitraglieri della Blackwater sparino lungo il percorso contro tutto ciò che si muove, è un’altra storia ma intanto, protetti all’interno del veicolo, potranno morire d’infarto o di vecchiaia, ma non certo per gli effetti di un’esplosione. E nemmeno per il ribaltamento del mezzo.
I rallisti italiani, invece, continuano a sporgere all’esterno del veicolo, novelli Rodrigo De Triana, e sembrano condannati fin dal momento della partenza del convoglio: più bersagli che Bersaglieri.
Riusciremo un bel giorno a superare il 1492? Riusciremo mai a non giocare a calcio come se fossimo in guerra e a non andare in guerra come se fosse una partita di calcio? Riusciremo mai a far sì che la Difesa pretenda e ottenga dall’Industria ciò che serve anziché farsi imporre dall’Industria ciò che quest’ultima preferisce? I soldati che impieghiamo in missioni all’estero hanno diritto al “meglio”, al non plus ultra degli armamenti, degli equipaggiamenti e della sicurezza. Per salvaguardare le loro vite non dobbiamo badare a spese.
E se siamo così miserabili da non poterci permettere le spese, teniamoli a casa. Un Paese che non dà il meglio ad Alessandro Di Lisio, non è degno di Lui.
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