domenica 14 febbraio 2010

Così tramonta l'era dei Kennedy di Giuseppe De Bellis

sabato 13 febbraio 2010, 07:00

È finita davvero, adesso. Finita con l’attualità, con la cronaca, col costume, con la realtà. I Kennedy si consegnano alla storia. Il mito sgualcito finisce in un cassetto: l’ultimo erede ha detto basta, chiude con Washington e con un seggio al Congresso, con la politica e quindi con l’affare che è stato di famiglia per più di sessant’anni. Patrick, eccolo l’ex rampollo che chiude a chiave la dinastia. È il figlio più piccolo di Ted, il senatore morto qualche mese fa. Siede in Congresso anche lui, deputato dello Stato del Rhode Island da 16 anni. Fino al prossimo novembre, fino alle elezioni di metà mandato che metteranno in valigia la storia politica di questa famiglia amata e chiacchierata, diventata mitologica anche al di là della effettiva portata politica dei suoi componenti. Pat lascia schiacciato dal peso di essere il reggente di qualcosa che si fa fatica a sopportare. Il peso di un cognome che vale molto, forse troppo: «Continuerò a servire il pubblico e a usare il mio peso politico. Non voglio farlo 24 ore al giorno sette giorni su sette».
È il tramonto di un’era. Il post Depressione, la Guerra, la ricostruzione, gli anni Sessanta, la ribellione dei Settanta, la felicità degli Ottanta che per loro è stata un calvario, il rampantismo clintoniano che li ha rimessi in gioco, l’arrivo di Bush e l’alternativa fintamente chic della famiglia. I Kennedy sono un ricordo del Novecento: hanno attraversato capitoli, tirati dentro come protagonisti anche quando non lo erano. Perché il cognome era un certificato da usare a comando. Quella stagione adesso è una leggenda da libro, da documentario, da film. Non abbiamo finito di vedere le foto della famiglia sulle spiagge del Massachusetts e neppure quelle dei padri, dei fratelli e dei figli nelle stanze della Casa Bianca. Abbiamo finito, però, di vedere le facce che hanno reso quelle immagini anacronisticamente attuali fino a ieri. L’addio del figlio di Ted chiude una stagione infinita: dal 1946 c’era sempre stato un Kennedy a Washington. Al Congresso o alla Casa Bianca. Potere e fascino tutto alimentato da misteri, gialli, chiaroscuri, dalle voci e sussurri. John, Bobby, Ted, i loro figli, i loro nipoti, diventati personaggi globali. Bastava il cognome per essere parte di un mito senza spazio e senza tempo. I guai e gli affari loschi hanno paradossalmente alimentato la grandezza della dinastia. Non c’è stato un Kennedy felice, nella storia. Né direttamente, né indirettamente. Patrick non è sfuggito: ha combattuto contro problemi mentali, di alcol, di dipendenze da farmaci. Un incidente a Capitol Hill nel 2006 mentre guidava sotto l’effetto dell’Ambien lo aveva portato in riabilitazione. Era tornato in clinica nel 2009, con il padre già in cura per un cancro al cervello. La morte di Ted era stata lo spartiacque e uno spunto di riflessione. «Per tutto l’autunno Patrick ha partecipato a cerimonie in memoria del padre. Finalmente a Natale ha avuto un momento per se stesso», ha scritto il Rhode Island Monthly che ieri, sul sito, pubblica una lunga intervista-profilo: «Mi sono accorto che avere una vita privata in questo momento è la cosa che mi importa di più. Che ci sono rapporti umani che contano più di ogni altra cosa». Per Patrick, cresciuto senza la madre in lotta con l’alcolismo, Ted era stato un faro: «Il centro del mio universo», aveva detto a dicembre. Ora tutti fanno a gara a comprendere il motivo dell’addio, la ragione della scelta di ritirarsi. Tra sociologia e psicologia spicciola. Lo fanno soprattutto gli amici dei Kennedy, da sempre in bilico tra la comprensione e lo sciacallaggio. Ora parla Darrell West, vicepresidente della Brookings Institution e autore di un libro su Patrick e su come è difficile essere un Kennedy. Spiegazioni e letture interiori: «È stata la morte del padre. Gli ha fatto capire che il tempo corre e non lo puoi fermare. Che bisogna vivere l’attimo fuggente». Eppure non c’è solo questo. C’è anche di più, forse di meglio. C’è la politica, soprattutto. Cioè la consapevolezza di non essere più quello che erano: potenti, affascinanti, magnetici. Il tempo ha sbiadito l’immagine di Jfk trasformandola in un’icona spesso deformata della retorica buonista. E se non era un santo John, non lo sono stati gli altri. Così l’America ha cominciato a rimuovere, a sostituire, a incasellare: hanno fatto un po’ di storia, ma possono essere messi da parte. E la botta, la famiglia l’ha presa qualche settimana fa con la vittoria di Scott Brown sul seggio che fu proprio di Ted. Un repubblicano nel feudo di Camelot. La fine del potere è stata lì. La fine della dinastia è adesso. La fine del mito non c’è. Non ancora.
http://www.ilgiornale.it/interni/cosi_tramonta_lera_kennedy/13-02-2010/articolo-id=421441-page=0-comments=1

venerdì 5 febbraio 2010

Caffè politically correct

venerdì 05 febbraio 2010, 08:51
Se il marocchino è "moretto" Senato: caffè politically correct
di Paola Setti
Baristi alla buvette pronti a correggere i clienti. I parlamentari esterrefatti: "Cambieranno nome anche al cappuccino, troppo offensivo verso i frati?"

«Un marocchino per favore». «Voleva dire un moretto, senatore». Non è dato sapere se la direttiva l’abbiano messa per iscritto. Alla buvette di Palazzo Madama, l’unico ordine certo è quello che impone la consegna del silenzio, provi a chiedere e ti pare di stare al Sismi: «Non siamo autorizzati a dare informazioni interne». «Mi hanno detto però che è una questione di politically correctness - racconta un divertito senatore Franco Orsi, Pdl -. Ora aspettiamo di ribattezzare il cappuccino con un nome meno riconducibile ai frati». Ieri c’era la fila al bar del Senato. Tutti a chiedere un marocchino per verificare se fosse vero. Ebbene sì. Se i ciechi sono ormai «non vedenti» e i bassi saranno presto «verticalmente svantaggiati», non si vede perché il fervore egualitario non dovrebbe entrare anche nel lessico di chi sta dietro al bancone. E che importa se, insomma, il caffè marocchino è il più buono, con la panna e il cacao in polvere, e quindi, se mai, sarebbe un riconoscimento in più al popolo degli aromi e delle spezie. I baristi alla buvette li correggono, come se lorsignori onorevoli stessero dando prova di bassezza razzista.
Fra i pochi a non mettersi in coda alla cassa, ieri c’era il senatore Cesarino Monti, quello che da sindaco leghista di Lazzate per mettere al riparo il suo comune dalla costruzione di moschee fece inserire nel piano regolatore un codicillo che vietava le costruzioni «in stile moresco», e che, correva l’anno 1997, vinse la guerra contro l’allora ministro dell’Interno Rosa Russo Iervolino che lo voleva sollevare dall’incarico per aver assunto un’impiegata «padana doc».

«Non ordino marocchino per principio» commenta. E il politicamente corretto? «Di corretto conosco solo il caffè: ma corretto latte, perché sono astemio». Fra il divertito e l’indignato Francesco Casoli, vicecapogruppo del Pdl: «Siamo anche noi impegnati in un’operazione di pulizia semantica alla buvette: cambieremo nome ai baci di dama, troppo sessisti, alle lingue di gatto, antianimaliste, e soprattutto alle palle di Mozart, irriverenti verso il grande compositore». Ma se fosse vero, è dal lessico che bisogna partire per educare il Paese all’integrazione? «Ha certo un senso, ma anche la tradizione della lingua italiana ne ha, e un conto è la mancanza di rispetto, altra cosa è pensare che nominare marocchino un caffè sia segno di disprezzo».
Così, tocca scoprire che il «marocchino» deve il nome al colore di un tipo di pelle usata come fascia per cappelli in voga negli anni Trenta, il Marocco, che ha appunto una colorazione simile alla bevanda, e che nasce a Torino, dal «Bicerin» di Cavour, evoluzione della bevanda sabauda con l’avvento delle moderne macchine del caffè. «E questo dimostra quanto stupido sia il politically correct a tutti i costi» s’infervora Giorgio Stracquadanio. Lui sta alla Camera, dove il «marocchino» è ancora tale. Ma è autore di diverse crociate contro quello che ha definito «luogocomunismo». «È un atteggiamento nato a sinistra che inquina la vita sociale e disturba le menti - analizza -. Nel tentativo di nobilitare la persona apostrofata, le si scarica addosso il problema, inchiodandola a uno stigma sociale. Così, l’handicappato è “portatore di handicap”, come fosse colpa sua, o “diversamente abile”, una ridicolizzazione. La stortura è che quando poi si dice un’ovvietà come quella che la clandestinità fa aumentare la criminalità, tutti si sentono titolati a indignarsi». Per fortuna ci si può scherzare ancora su: «Alla Camera le deputate brutte oggi sono “diversamente f...”. Ma forse questa lei non la può scrivere...».

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