lunedì 27 settembre 2010

domenica 14 febbraio 2010

Così tramonta l'era dei Kennedy di Giuseppe De Bellis

sabato 13 febbraio 2010, 07:00

È finita davvero, adesso. Finita con l’attualità, con la cronaca, col costume, con la realtà. I Kennedy si consegnano alla storia. Il mito sgualcito finisce in un cassetto: l’ultimo erede ha detto basta, chiude con Washington e con un seggio al Congresso, con la politica e quindi con l’affare che è stato di famiglia per più di sessant’anni. Patrick, eccolo l’ex rampollo che chiude a chiave la dinastia. È il figlio più piccolo di Ted, il senatore morto qualche mese fa. Siede in Congresso anche lui, deputato dello Stato del Rhode Island da 16 anni. Fino al prossimo novembre, fino alle elezioni di metà mandato che metteranno in valigia la storia politica di questa famiglia amata e chiacchierata, diventata mitologica anche al di là della effettiva portata politica dei suoi componenti. Pat lascia schiacciato dal peso di essere il reggente di qualcosa che si fa fatica a sopportare. Il peso di un cognome che vale molto, forse troppo: «Continuerò a servire il pubblico e a usare il mio peso politico. Non voglio farlo 24 ore al giorno sette giorni su sette».
È il tramonto di un’era. Il post Depressione, la Guerra, la ricostruzione, gli anni Sessanta, la ribellione dei Settanta, la felicità degli Ottanta che per loro è stata un calvario, il rampantismo clintoniano che li ha rimessi in gioco, l’arrivo di Bush e l’alternativa fintamente chic della famiglia. I Kennedy sono un ricordo del Novecento: hanno attraversato capitoli, tirati dentro come protagonisti anche quando non lo erano. Perché il cognome era un certificato da usare a comando. Quella stagione adesso è una leggenda da libro, da documentario, da film. Non abbiamo finito di vedere le foto della famiglia sulle spiagge del Massachusetts e neppure quelle dei padri, dei fratelli e dei figli nelle stanze della Casa Bianca. Abbiamo finito, però, di vedere le facce che hanno reso quelle immagini anacronisticamente attuali fino a ieri. L’addio del figlio di Ted chiude una stagione infinita: dal 1946 c’era sempre stato un Kennedy a Washington. Al Congresso o alla Casa Bianca. Potere e fascino tutto alimentato da misteri, gialli, chiaroscuri, dalle voci e sussurri. John, Bobby, Ted, i loro figli, i loro nipoti, diventati personaggi globali. Bastava il cognome per essere parte di un mito senza spazio e senza tempo. I guai e gli affari loschi hanno paradossalmente alimentato la grandezza della dinastia. Non c’è stato un Kennedy felice, nella storia. Né direttamente, né indirettamente. Patrick non è sfuggito: ha combattuto contro problemi mentali, di alcol, di dipendenze da farmaci. Un incidente a Capitol Hill nel 2006 mentre guidava sotto l’effetto dell’Ambien lo aveva portato in riabilitazione. Era tornato in clinica nel 2009, con il padre già in cura per un cancro al cervello. La morte di Ted era stata lo spartiacque e uno spunto di riflessione. «Per tutto l’autunno Patrick ha partecipato a cerimonie in memoria del padre. Finalmente a Natale ha avuto un momento per se stesso», ha scritto il Rhode Island Monthly che ieri, sul sito, pubblica una lunga intervista-profilo: «Mi sono accorto che avere una vita privata in questo momento è la cosa che mi importa di più. Che ci sono rapporti umani che contano più di ogni altra cosa». Per Patrick, cresciuto senza la madre in lotta con l’alcolismo, Ted era stato un faro: «Il centro del mio universo», aveva detto a dicembre. Ora tutti fanno a gara a comprendere il motivo dell’addio, la ragione della scelta di ritirarsi. Tra sociologia e psicologia spicciola. Lo fanno soprattutto gli amici dei Kennedy, da sempre in bilico tra la comprensione e lo sciacallaggio. Ora parla Darrell West, vicepresidente della Brookings Institution e autore di un libro su Patrick e su come è difficile essere un Kennedy. Spiegazioni e letture interiori: «È stata la morte del padre. Gli ha fatto capire che il tempo corre e non lo puoi fermare. Che bisogna vivere l’attimo fuggente». Eppure non c’è solo questo. C’è anche di più, forse di meglio. C’è la politica, soprattutto. Cioè la consapevolezza di non essere più quello che erano: potenti, affascinanti, magnetici. Il tempo ha sbiadito l’immagine di Jfk trasformandola in un’icona spesso deformata della retorica buonista. E se non era un santo John, non lo sono stati gli altri. Così l’America ha cominciato a rimuovere, a sostituire, a incasellare: hanno fatto un po’ di storia, ma possono essere messi da parte. E la botta, la famiglia l’ha presa qualche settimana fa con la vittoria di Scott Brown sul seggio che fu proprio di Ted. Un repubblicano nel feudo di Camelot. La fine del potere è stata lì. La fine della dinastia è adesso. La fine del mito non c’è. Non ancora.
http://www.ilgiornale.it/interni/cosi_tramonta_lera_kennedy/13-02-2010/articolo-id=421441-page=0-comments=1

venerdì 5 febbraio 2010

Caffè politically correct

venerdì 05 febbraio 2010, 08:51
Se il marocchino è "moretto" Senato: caffè politically correct
di Paola Setti
Baristi alla buvette pronti a correggere i clienti. I parlamentari esterrefatti: "Cambieranno nome anche al cappuccino, troppo offensivo verso i frati?"

«Un marocchino per favore». «Voleva dire un moretto, senatore». Non è dato sapere se la direttiva l’abbiano messa per iscritto. Alla buvette di Palazzo Madama, l’unico ordine certo è quello che impone la consegna del silenzio, provi a chiedere e ti pare di stare al Sismi: «Non siamo autorizzati a dare informazioni interne». «Mi hanno detto però che è una questione di politically correctness - racconta un divertito senatore Franco Orsi, Pdl -. Ora aspettiamo di ribattezzare il cappuccino con un nome meno riconducibile ai frati». Ieri c’era la fila al bar del Senato. Tutti a chiedere un marocchino per verificare se fosse vero. Ebbene sì. Se i ciechi sono ormai «non vedenti» e i bassi saranno presto «verticalmente svantaggiati», non si vede perché il fervore egualitario non dovrebbe entrare anche nel lessico di chi sta dietro al bancone. E che importa se, insomma, il caffè marocchino è il più buono, con la panna e il cacao in polvere, e quindi, se mai, sarebbe un riconoscimento in più al popolo degli aromi e delle spezie. I baristi alla buvette li correggono, come se lorsignori onorevoli stessero dando prova di bassezza razzista.
Fra i pochi a non mettersi in coda alla cassa, ieri c’era il senatore Cesarino Monti, quello che da sindaco leghista di Lazzate per mettere al riparo il suo comune dalla costruzione di moschee fece inserire nel piano regolatore un codicillo che vietava le costruzioni «in stile moresco», e che, correva l’anno 1997, vinse la guerra contro l’allora ministro dell’Interno Rosa Russo Iervolino che lo voleva sollevare dall’incarico per aver assunto un’impiegata «padana doc».

«Non ordino marocchino per principio» commenta. E il politicamente corretto? «Di corretto conosco solo il caffè: ma corretto latte, perché sono astemio». Fra il divertito e l’indignato Francesco Casoli, vicecapogruppo del Pdl: «Siamo anche noi impegnati in un’operazione di pulizia semantica alla buvette: cambieremo nome ai baci di dama, troppo sessisti, alle lingue di gatto, antianimaliste, e soprattutto alle palle di Mozart, irriverenti verso il grande compositore». Ma se fosse vero, è dal lessico che bisogna partire per educare il Paese all’integrazione? «Ha certo un senso, ma anche la tradizione della lingua italiana ne ha, e un conto è la mancanza di rispetto, altra cosa è pensare che nominare marocchino un caffè sia segno di disprezzo».
Così, tocca scoprire che il «marocchino» deve il nome al colore di un tipo di pelle usata come fascia per cappelli in voga negli anni Trenta, il Marocco, che ha appunto una colorazione simile alla bevanda, e che nasce a Torino, dal «Bicerin» di Cavour, evoluzione della bevanda sabauda con l’avvento delle moderne macchine del caffè. «E questo dimostra quanto stupido sia il politically correct a tutti i costi» s’infervora Giorgio Stracquadanio. Lui sta alla Camera, dove il «marocchino» è ancora tale. Ma è autore di diverse crociate contro quello che ha definito «luogocomunismo». «È un atteggiamento nato a sinistra che inquina la vita sociale e disturba le menti - analizza -. Nel tentativo di nobilitare la persona apostrofata, le si scarica addosso il problema, inchiodandola a uno stigma sociale. Così, l’handicappato è “portatore di handicap”, come fosse colpa sua, o “diversamente abile”, una ridicolizzazione. La stortura è che quando poi si dice un’ovvietà come quella che la clandestinità fa aumentare la criminalità, tutti si sentono titolati a indignarsi». Per fortuna ci si può scherzare ancora su: «Alla Camera le deputate brutte oggi sono “diversamente f...”. Ma forse questa lei non la può scrivere...».

http://www.ilgiornale.it/interni/se_marocchino_e_moretto__senato_caffe_politically_correct/05-02-2010/articolo-id=419346-page=0-comments=1

martedì 5 gennaio 2010

L'enigma della stella di Betlemme

martedì, 05 gennaio 2010

Da Storia libera traggo questo interessante brano di Vittorio Messori, tratto da "Ipotesi su Gesù", SEI:

Viene ancora dall'archeologia un'altra serie di strane testimonianze. Noi oggi sappiamo con sicurezza che la più celebre astrologia del mondo antico, quella babilonese, non soltanto era anch'essa in attesa del Messia dalla Palestina.

Ma ne aveva previsto la data con una precisione ancor maggiore di quella degli esseni. Ecco qui di seguito la vicenda: libero ciascuno di trarne le conclusioni che gli pare.
Tutto parte dalla stella (il testo non parla mai di cometa, come molti credono) che avrebbe brillato nel cielo di Betlemme alla nascita di Gesù e dal conseguente arrivo di certi magi dall'Oriente. Così, almeno, quanto si racconta nel vangelo di Matteo.
Non si è naturalmente raggiunta la certezza che le cose si siano davvero svolte come raccontato da Matteo, né si giungerà mai a questa sicurezza: è però certo che l'ipotesi che si tratti di un racconto simbolico deve fare i conti con una serie di scoperte effettuate nell'arco degli ultimi tre secoli.
Pare intanto provato ormai scientificamente che gli astrologi babilonesi (quasi certamente i magi di Matteo) attendevano la nascita del «dominatore del mondo» a partire dall'anno 7 a.C. Questa data, con l'anno 6 a.C., è tra quelle che gli studiosi danno come più sicure per la nascita di Gesù. Il monaco Dionigi il Piccolo, infatti, calcolando nel 533 l'inizio della nuova era, si sbagliò e posticipò di circa 6 anni la data della Natività.
In questa luce, acquistano nuovo suono i due versetti del secondo capitolo di Matteo: «Nato Gesù in Betlemme di Giuda, al tempo del re Erode, ecco dei magi arrivare dall'oriente a Gerusalemme, dicendo: "Dov'è nato il re dei Giudei? Abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti ad adorarlo"».
Ecco le tappe che avrebbero portato a chiarire il perché dell'arrivo e della domanda dei magi. Una vicenda che ha quasi il sapore di un «giallo».
Nel dicembre del 1603 il celebre Keplero, uno dei padri dell'astronomia moderna, osserva da Praga la luminosissima congiunzione (l'avvicinamento, cioè) di Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci. Keplero, con certi suoi calcoli, stabilisce che lo stesso fenomeno (che provoca una luce intensa e vistosa nel cielo stellato) deve essersi verificato anche nel 7 a.C. Lo stesso astronomo scopre poi un antico commentario alla Scrittura del rabbino Abarbanel che ricorda come, secondo una credenza degli ebrei, il Messia sarebbe apparso proprio quando, nella costellazione dei Pesci, Giove e Saturno avessero unito la loro luce.
Pochi diedero qualche peso a queste scoperte di Keplero: prima di tutto perché la critica non aveva ancora stabilito con certezza che Gesù era nato prima della data tradizionale. Quel 7 a.C., dunque, non «impressionava». E poi anche perché l'astronomo univa troppo volentieri ai risultati scientifici le divagazioni mistiche.
Oltre due secoli dopo, lo studioso danese Münter scopre e decifra un commentario ebraico medievale al libro di Daniele, proprio quello delle «settanta settimane». Münter prova con quell'antico testo che ancora nel Medio Evo per alcuni dotti giudei la congiunzione Giove-Saturno nella costellazione dei Pesci era uno dei «segni» che dovevano accompagnare la nascita del Messia. Si ha così una riprova della credenza giudaica segnalata da Keplero che, con le «date» di Giacobbe e di Daniele, può avere alimentato l'attesa ebraica del primo secolo.
Nel 1902 è pubblicata la cosiddetta Tavola planetaria, conservata ora a Berlino: è un papiro egiziano che riporta con esattezza i moti dei pianeti dal 17 a.C. al 10 d.C. I calcoli di Keplero (già confermati del resto dagli astronomi moderni) trovano una conferma ulteriore, basata addirittura sull'osservazione diretta degli studiosi egiziani che avevano compilato la «tavola». Nel 7 a.C. si era appunto verificata la congiunzione Giove-Saturno ed era stata visibilissima e luminosissima su tutto il Mediterraneo.
Infine, nel 1925 è pubblicato il Calendario stellare di Sippar. E' una tavoletta in terracotta con scrittura cuneiforme proveniente appunto dall'antica città di Sippar, sull'Eufrate, sede di un'importante scuola di astrologia babilonese. Nel «calendario» sono riportati tutti i movimenti e le congiunzioni celesti proprio del 7 a.C. Perché quell'anno? Perché, secondo gli astronomi babilonesi, nel 7 a.C. la congiunzione di Giove con Saturno nel segno dei Pesci doveva verificarsi per ben tre volte: il 29 maggio, il 1° ottobre e il 5 dicembre. Da notare che quella congiunzione si verifica soltanto ogni 794 anni e per una volta sola: nel 7 a.C., invece, si ebbe per tre volte. Anche questo calcolo degli antichissimi esperti di Sippar fu trovato esatto dagli astronomi contemporanei.
Gli archeologi hanno infine decifrato la simbologia degli astrologi babilonesi. Ecco i loro risultati: Giove, per quegli antichi indovini, era il pianeta dei dominatori del mondo. Saturno il pianeta protettore d'Israele. La costellazione dei Pesci era considerata il segno della «Fine dei Tempi», dell'inizio cioè dell'era messianica.
Dunque, potrebbe essere qualcosa di più di un mito il racconto di Matteo dell'arrivo dall'Oriente a Gerusalemme di sapienti, di magi, che chiedono «Dov'è nato il re dei giudei?».
E' ormai certo, infatti, che tra il Tigri e l'Eufrate non solo si aspettava (come in tutto l'Oriente) un Messia che doveva giungere da Israele. Ma che si era pure stabilito con stupefacente sicurezza che doveva nascere in un tempo determinato.

Quel tempo in cui, per i cristiani, il «dominatore del mondo» è veramente apparso
Qui potete trovare un interessante dossier sull'argomento
http://www.storialibera.it/epoca_antica/cristianesimo_e_storicita/nascita_di_gesu/i_magi_e_la_stella/

mercoledì 30 dicembre 2009

La squadra dei sogni

Travaglio vicepremier e Genchi al Viminale: il governissimo della manetta
DALLE CONSULTAZIONI AL GIURAMENTO: LA VERA STORIA DELL’ESECUTIVO GUIDATO DA DI PIETRO.
A FIANCO DEL LEADER DELL’IDV CI SONO FURIO COLOMBO (ESTERI), BEATRICE BORROMEO (PARI OPPORTUNITÀ), VLADIMIR LUXURIA (DIFESA) E BEPPE GRILLO (AMBIENTE)
Lo chiamarono “il Golpe di velluto”.
Non tanto a causa della ferocia degli eventi che portarono all’abdicazione di Silvio Berlusconi - i trattori che sfondano Porta Pia, l’onda viola, la massa furiosa dei No B Day all’assedio di palazzo Grazioli. No. Il “Golpe di velluto” fu per via del tessuto della giacchetta a coste sottili comprata all’Oviesse di Termoli, che Antonio Di Pietro indossava al Quirinale il giorno del giuramento. Era il suo primo mandato alla Presidenza del Consiglio; e Tonino, povero cristo, non aveva avuto tempo per cambiarsi d’abito. D’altronde gli avvenimenti attorno a lui turbinavano incontrollati sulla giostra della Storia. Prima l’editoriale di chiamata alle armi di Paolo Flores D’Arcais (che, in fondo, voleva soltanto un posticino al Senato, non pensando di scatenare l’inferno...); poi Marco Travaglio che nella sua tournée teatrale iniziò misteriosamente a disertare i congiuntivi e a tradurre i testi in molisano stretto, un segnale in codice che dare il via all’attacco; infine l’orda dei cosacchi comunisti, i quali richiamati dal traditore gramsciano Antonio Ricci, arrivarono ad abbeverare i cavalli al Laghetto dei Cigni dopo aver fucilato il Gabibbo. Fu per tale susseguirsi concitato d’avvenimenti che il popolo - che, si sa, è bue - cambiò idea: mollò, non senza riluttanza, l’esausto Silvio e si gettò nelle braccia di Tonino. Solo che Di Pietro Presidente del Consiglio era la parte più facile, nonostante Napolitano gli avesse fatto ripetere per tre volte il giuramento (qualcosa non andava; non era l’emozione, ma la consecutio...). Il dramma vero, però, era nominare tutto il nuovo governo; accontentare la folla dei rivoluzionari -antiberlusconiani, giustizialisti, fuorusciti bersaniani, diccì geneticamente modificati, giornalisti del Fatto- richiedeva paraculismo e innate doti d’equilibrio; e se sul paraculismo Tonino era preparatissimo, sull’equilibrio, da sempre, difettava. La prima scelta fu, naturalmente, Travaglio co-premier al posto strategico che era di Gianni Letta; a dire il vero, Tonino lo voleva alla Giustizia, ma sapendo che Marco avrebbe rotto i coglioni anche alla sinistra, preferì metterci uno più moderato. Flores D’Arcais. Il quale, ebbro d’insospettata gioia, subito piazzò la redazione di Micromega direttamente al Palazzo di giustizia di Milano -casa e bottega- e produsse la riforma per l’unificazione totale delle carriere, coi segretari di redazione e i correttori di bozze che potevano turnarsi, all’occasione, come pubblici ministeri.
Dopo qualche mese di vaporosa follia, il premier decise che era il caso di affiancare al Guardasigilli un tecnico: Gherardo Colombo non poteva, arrivò il giudice Santi Licheri. Tonino scelse poi i suoi sottosegretari: Massimo Donadi, Beppe Giulietti sbendato dalle elezione del 2006 e Checco Zalone chiamato “per competenza territoriale”a risolvere l’emergenza rifiuti in Campania. Zalone tentò di spiegare di essere un comico («Perché, Flores secondo te è un ministro?», rispose Tonino); e di essere di Bari e che Bari era in Puglia, ma non ci fu nulla da fare. Tonino proseguì sulla linea della creatività. Nominò Fazio (Fabio) all’Attuazione del programma (convinto che il programma fosse su Raitre);Homer Simpson alla Semplificazione Normativa; alla Pubblica Amministrazione Pancho Pardi, che vestito con poncho e sombrero riuscì ad estendere le assunzioni selvagge nelle Poste, ai catasti e nei dicasteri di Croazia, Bosnia Erzegovina e Tunisia occidentale; e Beatrice Borromeo alle Pari Opportunità, non tanto per le competenze professionali quanto perché «Se Berlusconi ci aveva messo una gnocca, io no?». C’era del raziocinio, nella sua strategia politica.
Luca di Montezemolo che passava di lì per caso, divenne ministro del Turismo, senza portafoglio, non si sa mai. Gli Esteri andarono, per esclusione, a Furio Colombo, l’unico della compagine che sapeva l’inglese e non scambiava il Senato di Washington per un trullo riuscito male. Inconsueta fu la scelta di Gioacchino Genchi, Interceptor, il superpoliziotto dei tabulati impossibili agli Interni. In realtà gli uscieri videro Genchi aggirarsi per palazzo Chigi affannato, con un pacco di faldoni in mano alla ricerca di una toilette; s’infilò, per sbaglio, nell’ufficio del Presidente del Consiglio, e ne uscì, venti minuti dopo, Guardasigilli. Ma senza i faldoni. Altra cooptazione bizzarra fu il recupero di Vladimir Luxuria alla Difesa. La nomina del transgender, dettata certo da un clima pacificatorio (e anche perchè in divisa Vlady sta un figurino), comportò qualche innovazione e provocò lo sconcerto della Nato e del Patto Atlantico. Fu ripristinata la leva maschile obbligatoria, ma il kit della nuova fanteria meccanizzata prevedeva, curiosamente, smalto per le unghie, tette finte e giarrettiere peraltro scomodissime sotto gli anfibi, specie nelle marce alpine. Il ministero del Lavoro, per capacità, toccò a Tito Boeri; quello dell’Economia, per riconoscenza, a Carlo De Benedetti. Il quale, grazie ai micidiali attacchi del suo partito mediatico -Repubblica e compagnia bella- era riuscito a dare una spallata decisiva al Popolo delle Libertà. E anche al Pd. Lo spin doctor Eugenio Scalfari inizialmente sottosegretario, ritenendo di non essere mai stato “sotto” in vita sua divenne “soprasegretario”. Beppe Grillo, oramai fantasma di sè stesso, andò ai trasporti in virtù della sua patente nautica. Il medico Daniele Luttazzi alla Sanità, e cominciò a non ridere più. Dariofoefrancarame - tutt’attaccato - s’aggrapparono all’Istruzione, coordinati da Michele Serra che potè sbizzarrirsi ai Beni Culturali.
Dopo due giorni Michele -la nemesi- iniziò a scrivere liriche scanzonate come Sandro Bondi. Santoro alle Comunicazioni, Ruotolo sottosegretario. Cristiano Di Pietro omonimo e casualmente figlio del premier fu indicato alle Politiche Giovanili, Agricoltura e Trasporti; la Freccia Rossa venne sostituita con comodi e più sicuri trattori a due ottani. Fred Bongusto venne nominato sottosegretario. Non si capì mai di preciso il perchè, ma era molisano....
.