sabato 13 febbraio 2010, 07:00
È finita davvero, adesso. Finita con l’attualità, con la cronaca, col costume, con la realtà. I Kennedy si consegnano alla storia. Il mito sgualcito finisce in un cassetto: l’ultimo erede ha detto basta, chiude con Washington e con un seggio al Congresso, con la politica e quindi con l’affare che è stato di famiglia per più di sessant’anni. Patrick, eccolo l’ex rampollo che chiude a chiave la dinastia. È il figlio più piccolo di Ted, il senatore morto qualche mese fa. Siede in Congresso anche lui, deputato dello Stato del Rhode Island da 16 anni. Fino al prossimo novembre, fino alle elezioni di metà mandato che metteranno in valigia la storia politica di questa famiglia amata e chiacchierata, diventata mitologica anche al di là della effettiva portata politica dei suoi componenti. Pat lascia schiacciato dal peso di essere il reggente di qualcosa che si fa fatica a sopportare. Il peso di un cognome che vale molto, forse troppo: «Continuerò a servire il pubblico e a usare il mio peso politico. Non voglio farlo 24 ore al giorno sette giorni su sette».
È il tramonto di un’era. Il post Depressione, la Guerra, la ricostruzione, gli anni Sessanta, la ribellione dei Settanta, la felicità degli Ottanta che per loro è stata un calvario, il rampantismo clintoniano che li ha rimessi in gioco, l’arrivo di Bush e l’alternativa fintamente chic della famiglia. I Kennedy sono un ricordo del Novecento: hanno attraversato capitoli, tirati dentro come protagonisti anche quando non lo erano. Perché il cognome era un certificato da usare a comando. Quella stagione adesso è una leggenda da libro, da documentario, da film. Non abbiamo finito di vedere le foto della famiglia sulle spiagge del Massachusetts e neppure quelle dei padri, dei fratelli e dei figli nelle stanze della Casa Bianca. Abbiamo finito, però, di vedere le facce che hanno reso quelle immagini anacronisticamente attuali fino a ieri. L’addio del figlio di Ted chiude una stagione infinita: dal 1946 c’era sempre stato un Kennedy a Washington. Al Congresso o alla Casa Bianca. Potere e fascino tutto alimentato da misteri, gialli, chiaroscuri, dalle voci e sussurri. John, Bobby, Ted, i loro figli, i loro nipoti, diventati personaggi globali. Bastava il cognome per essere parte di un mito senza spazio e senza tempo. I guai e gli affari loschi hanno paradossalmente alimentato la grandezza della dinastia. Non c’è stato un Kennedy felice, nella storia. Né direttamente, né indirettamente. Patrick non è sfuggito: ha combattuto contro problemi mentali, di alcol, di dipendenze da farmaci. Un incidente a Capitol Hill nel 2006 mentre guidava sotto l’effetto dell’Ambien lo aveva portato in riabilitazione. Era tornato in clinica nel 2009, con il padre già in cura per un cancro al cervello. La morte di Ted era stata lo spartiacque e uno spunto di riflessione. «Per tutto l’autunno Patrick ha partecipato a cerimonie in memoria del padre. Finalmente a Natale ha avuto un momento per se stesso», ha scritto il Rhode Island Monthly che ieri, sul sito, pubblica una lunga intervista-profilo: «Mi sono accorto che avere una vita privata in questo momento è la cosa che mi importa di più. Che ci sono rapporti umani che contano più di ogni altra cosa». Per Patrick, cresciuto senza la madre in lotta con l’alcolismo, Ted era stato un faro: «Il centro del mio universo», aveva detto a dicembre. Ora tutti fanno a gara a comprendere il motivo dell’addio, la ragione della scelta di ritirarsi. Tra sociologia e psicologia spicciola. Lo fanno soprattutto gli amici dei Kennedy, da sempre in bilico tra la comprensione e lo sciacallaggio. Ora parla Darrell West, vicepresidente della Brookings Institution e autore di un libro su Patrick e su come è difficile essere un Kennedy. Spiegazioni e letture interiori: «È stata la morte del padre. Gli ha fatto capire che il tempo corre e non lo puoi fermare. Che bisogna vivere l’attimo fuggente». Eppure non c’è solo questo. C’è anche di più, forse di meglio. C’è la politica, soprattutto. Cioè la consapevolezza di non essere più quello che erano: potenti, affascinanti, magnetici. Il tempo ha sbiadito l’immagine di Jfk trasformandola in un’icona spesso deformata della retorica buonista. E se non era un santo John, non lo sono stati gli altri. Così l’America ha cominciato a rimuovere, a sostituire, a incasellare: hanno fatto un po’ di storia, ma possono essere messi da parte. E la botta, la famiglia l’ha presa qualche settimana fa con la vittoria di Scott Brown sul seggio che fu proprio di Ted. Un repubblicano nel feudo di Camelot. La fine del potere è stata lì. La fine della dinastia è adesso. La fine del mito non c’è. Non ancora.
http://www.ilgiornale.it/interni/cosi_tramonta_lera_kennedy/13-02-2010/articolo-id=421441-page=0-comments=1
È finita davvero, adesso. Finita con l’attualità, con la cronaca, col costume, con la realtà. I Kennedy si consegnano alla storia. Il mito sgualcito finisce in un cassetto: l’ultimo erede ha detto basta, chiude con Washington e con un seggio al Congresso, con la politica e quindi con l’affare che è stato di famiglia per più di sessant’anni. Patrick, eccolo l’ex rampollo che chiude a chiave la dinastia. È il figlio più piccolo di Ted, il senatore morto qualche mese fa. Siede in Congresso anche lui, deputato dello Stato del Rhode Island da 16 anni. Fino al prossimo novembre, fino alle elezioni di metà mandato che metteranno in valigia la storia politica di questa famiglia amata e chiacchierata, diventata mitologica anche al di là della effettiva portata politica dei suoi componenti. Pat lascia schiacciato dal peso di essere il reggente di qualcosa che si fa fatica a sopportare. Il peso di un cognome che vale molto, forse troppo: «Continuerò a servire il pubblico e a usare il mio peso politico. Non voglio farlo 24 ore al giorno sette giorni su sette».
È il tramonto di un’era. Il post Depressione, la Guerra, la ricostruzione, gli anni Sessanta, la ribellione dei Settanta, la felicità degli Ottanta che per loro è stata un calvario, il rampantismo clintoniano che li ha rimessi in gioco, l’arrivo di Bush e l’alternativa fintamente chic della famiglia. I Kennedy sono un ricordo del Novecento: hanno attraversato capitoli, tirati dentro come protagonisti anche quando non lo erano. Perché il cognome era un certificato da usare a comando. Quella stagione adesso è una leggenda da libro, da documentario, da film. Non abbiamo finito di vedere le foto della famiglia sulle spiagge del Massachusetts e neppure quelle dei padri, dei fratelli e dei figli nelle stanze della Casa Bianca. Abbiamo finito, però, di vedere le facce che hanno reso quelle immagini anacronisticamente attuali fino a ieri. L’addio del figlio di Ted chiude una stagione infinita: dal 1946 c’era sempre stato un Kennedy a Washington. Al Congresso o alla Casa Bianca. Potere e fascino tutto alimentato da misteri, gialli, chiaroscuri, dalle voci e sussurri. John, Bobby, Ted, i loro figli, i loro nipoti, diventati personaggi globali. Bastava il cognome per essere parte di un mito senza spazio e senza tempo. I guai e gli affari loschi hanno paradossalmente alimentato la grandezza della dinastia. Non c’è stato un Kennedy felice, nella storia. Né direttamente, né indirettamente. Patrick non è sfuggito: ha combattuto contro problemi mentali, di alcol, di dipendenze da farmaci. Un incidente a Capitol Hill nel 2006 mentre guidava sotto l’effetto dell’Ambien lo aveva portato in riabilitazione. Era tornato in clinica nel 2009, con il padre già in cura per un cancro al cervello. La morte di Ted era stata lo spartiacque e uno spunto di riflessione. «Per tutto l’autunno Patrick ha partecipato a cerimonie in memoria del padre. Finalmente a Natale ha avuto un momento per se stesso», ha scritto il Rhode Island Monthly che ieri, sul sito, pubblica una lunga intervista-profilo: «Mi sono accorto che avere una vita privata in questo momento è la cosa che mi importa di più. Che ci sono rapporti umani che contano più di ogni altra cosa». Per Patrick, cresciuto senza la madre in lotta con l’alcolismo, Ted era stato un faro: «Il centro del mio universo», aveva detto a dicembre. Ora tutti fanno a gara a comprendere il motivo dell’addio, la ragione della scelta di ritirarsi. Tra sociologia e psicologia spicciola. Lo fanno soprattutto gli amici dei Kennedy, da sempre in bilico tra la comprensione e lo sciacallaggio. Ora parla Darrell West, vicepresidente della Brookings Institution e autore di un libro su Patrick e su come è difficile essere un Kennedy. Spiegazioni e letture interiori: «È stata la morte del padre. Gli ha fatto capire che il tempo corre e non lo puoi fermare. Che bisogna vivere l’attimo fuggente». Eppure non c’è solo questo. C’è anche di più, forse di meglio. C’è la politica, soprattutto. Cioè la consapevolezza di non essere più quello che erano: potenti, affascinanti, magnetici. Il tempo ha sbiadito l’immagine di Jfk trasformandola in un’icona spesso deformata della retorica buonista. E se non era un santo John, non lo sono stati gli altri. Così l’America ha cominciato a rimuovere, a sostituire, a incasellare: hanno fatto un po’ di storia, ma possono essere messi da parte. E la botta, la famiglia l’ha presa qualche settimana fa con la vittoria di Scott Brown sul seggio che fu proprio di Ted. Un repubblicano nel feudo di Camelot. La fine del potere è stata lì. La fine della dinastia è adesso. La fine del mito non c’è. Non ancora.
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