martedì 30 dicembre 2008

Israele rischia a nome di tutto l'Occidente

Israele rischia a nome di tutto l'occidente
Scritto da Carlo Panella
martedì 30 dicembre 2008
Gaza non è un problema del solo Israele, Hamas padrona di Gaza è un pericolo per tutto il mondo, ma Israele è lasciato solo a contrastare il virus jihadista di Hamas. Non è la prima volta, non sarà l'ultima che gli ebrei sono lasciati solo a contrastare un insorgenza nazista. E' già successo a Varsavia; già nel 1948 e nel 1956 e nel 1967. Pure, basta leggere la stampa araba, per capire che Hamas a Gaza è una minaccia jihadista mortale per tutti i paesi arabi. Basta guardare la ferocia con cui la guardia di frontiera egiziana tiene alla larga il palestinesi che vorrebbero lasciare Gaza, per capire che Hosni Mubarak –e con lui re Abdullah dell'Arabia Saudita- sono ben contenti che Israele –al solito- faccia quel "lavoro sporco" che loro per imbelle ignavia non sanno fare: contrastare e combattere l'Internazionale del jihad sta che ha nell'Iran il suo caposaldo e in Hamas a Gaza la sua testa di ponte sul Mediterraneo. Solo la congenita viltà dell'Europa unita, può fingere che Gaza sia problema degli ebrei di Israele e non della sua stessa sicurezza, può far fingere di non vedere che Hamas è parte della strategia dell'atomica iraniana. Solo una diplomazia mondiale ormai indefinibile, alla pari con l'intellighenzjia progressista più sterile della storia, può pensare che sia ancora possibile, a Gaza, lo schema "pace in cambio di territori". Hamas incarna la negazione assoluta di quella prospettiva, e l'ha dimostrato ad un mondo che non vuole prenderne atto, perché allora dovrebbe agire e reagire. Hamas ha avuto il territorio di Gaza e l'ha usato non per implementare una trattativa che l'avrebbe vista trionfante nel 2006, ma per spiegare a tutto il mondo che la sua strategia è il jihad, versione Ahmadinejiad e il suo fine ultimo è la distruzione di Israele, nel nome di un "Uomo nuovo islamico", che mette i brividi, lo stesso che condanna a morte le bimbe che vanno a scuola a Kabul. Hamas ha sempre rifiutato di riconoscere il diritto a esistere di Israele e ha estirpato da Gaza tutti i palestinesi che intendevano perseguire la politica di "pace contro territori". Dal giugno del 2007. dalle stragi di palestinesi compiute da palestinesi, dal "golpe di Hamas" denunciato da Abu Mazen, tutto il mondo arabo sa, tutta l'Europa sa, che Gaza è in mano ad un partito che predica l'odio jihadista, che vuole distruggere Israele e abbattere tutti i regimi arabi, in piena sintonia con i deliri della rivoluzione iraniana diretta dall'ayatollah Khamenei. Ma, a fronte dell'evidenza del pericolo universale costituito dai deliri di Hamas, i paesi arabi hanno solo saputo erigere una frontiera di ferro attorno a Gaza (ricordate i palestinesi morti per mano dei mitra egiziani ?) e proporre inutili trattative di pace tra Abu Mazen e Hamas. Trattative che Hamas ha sabotato proprio quando ha iniziato a lanciare razzi su Israele. L'Europa ha fatto di peggio, ha mandato un Tony Blair nella veste del costoso e inutilissimo mediatore a fare finta che si possa ancora parlare di "Pace contro territori", ipocritamente e falsamente sostenendo che un accordo tra Abu Mazen e Israele risolverebbe il "problema Hamas". Ma Hamas ha come obbiettivo prioritario quello di impedire l'accordo tra Gerusalemme e Ramallah, in una continuità di ormai 80 anni con quell'Ezzedin al Kassem che combattè negli anni venti agli ordini del filonazista Gran Muft', contro i palestinesi Nashashibi che invece cercavano l'accordo con i sionisti. Il mondo intero –Usa esclusi- ha fatto finta che dei nazisti islamici di Hamas si dovesse occupare solo Israele. E Israele se ne occupa. Come può. Come deve.
(Il Foglio del 30 dicembre)

Il manifesto della razza


Il «Manifesto della razza» del 1938 e i cattolici

Notizie dalla rete
Martedì 23 Dicembre 2008 10:37
di Giovanni Sale S.I. Negli ultimi anni del suo pontificato Pio XI condusse una forte battaglia contro la politica eugenetica e razziale dell’Asse nazifascista. Papa Ratti giudicò il Manifesto della razza del 1938 contrario alla dottrina cristiana, al diritto naturale e ad ogni elementare senso di umanità. Da «La Civiltà Cattolica», quaderno 3793, 5 luglio 2008
Il primo provvedimento in materia razziale in Italia fu promulgato dal Governo Mussolini nell’aprile del 1937: esso vietava, comminando pesanti pene detentive, ai cittadini italiani di tenere «relazione d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale italiana». Tale legislazione, che costituì il primo passo di un processo teso a discriminare i cittadini e le persone in base alla loro appartenenza razziale, aveva lo scopo di vietare il concubinato tra bianchi e persone di colore nei Paesi colonizzati, in modo da evitare che in quelle terre si sviluppasse una razza meticcia, considerata pericolosa per la purezza di quella italica. Tale tipo di convivenze coloniali (in particolare il cosiddetto «madamato»), molte delle quali col tempo si sarebbero trasformate in unioni coniugali, avrebbero finito, si diceva, per imbastardire la razza dei dominatori latini. A differenza della Francia e dell’Inghilterra che su tale materia privilegiarono la politica dell’«assimilazione» , l’Italia fascista scelse quella della separazione netta, vietando ogni forma di unione e di fraternizzazione tra italiani e indigeni.Il modello assimilazionista, adottato dalle «deprecate» democrazie occidentali, era considerato dai fascisti italiani e dai nazisti tedeschi l’anticamera della corruzione e della degradazione della razza bianca e, quindi, della sua inesorabile decadenza. Il Governo fece di tutto, a livello sia legislativo sia propagandistico, per scoraggiare e arginare tale fenomeno. Esso chiese all’autorità religiosa, e in particolare ai missionari presenti nelle colonie italiane, di collaborare con le autorità coloniali per dissuadere i cattolici dal contrarre «matrimoni misti» e di combattere insieme la «piaga sociale del madamato». In realtà, in quegli anni anche il mondo cattolico, incluso quello ecclesiastico, basandosi su princìpi pseudoscientifici, ritenevano come acquisiti alcuni dati concernenti l’eugenetica, che invece erano soltanto il risultato di scelte di natura ideologica (per lo più filo-razziste) , non fondati su riscontri oggettivi. In ogni caso la Chiesa vedeva nei nuovi provvedimenti che vietavano il concubinato efficaci strumenti repressivi adatti a limitare comportamenti disordinati e a volte scandalosi dal punto di vista morale adottati dai nuovi conquistatori, i quali del resto si professavano cattolici. In una Nota del 1° agosto 1938 indirizzata dal Nunzio Apostolico in Italia, mons. F. Borgongini Duca, al Capo del Governo a tale proposito si diceva: «La Santa Sede si compiace col Governo Italiano per aver colpito il concubinato fra gli italiani e gli indigeni di colore. Quanto a fiancheggiare l’azione moralizzatrice del Governo, come si domanda dalle Autorità Coloniali, la Chiesa non si rifiuta di prestare largamente, per mezzo dei suoi missionari, l’invocata opera di persuasione ad impedire tali ibride unioni, per i saggi motivi igienico sociali intesi dallo Stato, ma soprattutto per le ragioni di indole morale e religiosa, che hanno la maggiore efficacia nelle anime» (1). Il «Manifesto della razza» e la posizione della Santa SedeIl 15 luglio 1938 il Giornale d’Italia pubblicava, col significativo titolo «Il fascismo e i problemi della razza», i risultati di uno studio condotto da un gruppo anonimo di studiosi fascisti, docenti nelle università italiane, il quale fissava <1) Le razze umane esistono; 2) Esistono grandi razze e piccole razze; 3) Il concetto di razza è concetto puramente biologico; 4) La popolazione dell’Italia attuale è di origine ariana e la sua civiltà è ariana; 5) È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici; 6) Esiste ormai una pura razza italiana; 7) È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti; 8) È necessario far una netta distinzione fra i mediterranei dell’Europa occidentale, da una parte; gli orientali e gli africani, dall’altra; 9) Gli ebrei non appartengono alla razza italiana; 10) I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani non devono essere alterati in alcun modo. In un primo momento tale Manifesto fu commentato dalla stampa di regime in modo da non creare allarmismi nella piccola, ma influente, comunità ebraica italiana, come anche negli ambienti della borghesia cosmopolita e nel mondo cattolico. Il Messaggero del 15 luglio, mettendo in evidenza l’obiettiva scientificità del punti indicati nel manifesto, precisava: «Esula dalla concezione fascista della razza qualsiasi intenzione polemica di natura filosofica o religiosa allo stesso modo che esula da essa il vecchio mito tanto discusso nell’Ottocento delle razze superiori o inferiori. Essa si limita ad affermare che esistono razze umane “differenti”, con caratteri propri fino a costituire un tipo a sé, inconfondibile» . L’intento principale di tale studio, secondo la propaganda del regime, era in ogni caso di sensibilizzare gli italiani al problema della cura e della purezza della razza, come, si diceva, veniva fatto anche in altri Paesi civili.Si è molto dibattuto in sede storica sulle cause e sulle motivazioni di ordine politico e ideologico che spinsero il regime fascista a adottare una legislazione razzista (2). In realtà, già a quel tempo, molti, anche tra i cattolici, si domandavano quale senso avesse tale nuovo indirizzo politico. «Lo scopo vero di questa politica razziale — è detto in una Nota vaticana — non lo si conosce: apparentemente sembra quello di salvaguardare la razza italiana da ogni ibridismo e contaminazione» (3). Da tale Nota risulta che Ia propaganda del fascismo e le stesse parole del Duce sulla questione razziale venivano accolte in Vaticano con un certo scetticismo. Commentando l’informativa diplomatica n. 18 del 5 agosto 1938 (la quale, a proposito della questione ebraica, fissava il principio che «discriminare non è perseguitare» ), un prelato della Segreteria di Stato scrisse che essa era il frutto della penosa impressione suscitata all’estero dal Manifesto della razza: «Tale indirizzo politico non sembra giustificato dal fatti, perché un vero problema ebraico non pare esistere in Italia, dove gli ebrei sono 50.000 e sarebbe forse bastato eliminare quelli che maggiormente danno noia e impedire l’immigrazione di nuovi elementi» (4).Circa le cause che diedero vita a tale indirizzo razzistico e xenofobo vengono generalmente indicati due ordini di motivi. Il primo, di carattere politico-propagandi stico, era rivolto a vivificare il regime, dandogli nuove, o meglio più aggiornate, basi ideologiche e identitarie, fondate sul concetto di razza e sull’orgoglio di appartenenza razziale. Su tali princìpi, considerati scientifici e quindi inattaccabili, si intendevano inoltre forgiare le nuove generazioni, in particolare i giovani che facevano parte delle associazioni fasciste, in modo da dar vita una volta per tutte al «fascista integrale», sinceramente razzista e fiero di appartenere alla razza ariano-latina. Il secondo riguardava invece il nuovo orientamento assunto in ambito internazionale negli ultimi tempi dall’Italia: naufragati gli accordi con l’Inghilterra, Mussolini si adoperò con tutte le sue forze a consolidare il rapporto di amicizia con la Germania nazista, già iniziato due anni prima in occasione della guerra civile spagnola. In questa per la prima volta gli Stati totalitari europei si scontrarono, su «terreno neutro», con quelli democratici, mettendo a confronto il proprio potenziale bellico e la propria capacità di trascinare le masse. In ogni caso, in quei mesi i rapporti italo-tedeschi si erano intensificati a un punto tale che, anche sotto l’aspetto operativo, la scelta razzista e antiebraica del regime era praticamente obbligata. Eppure non c’è dubbio — scrive in proposito De Felice — che anche sull’adozione del provvedimenti razziali la visita di Hitler a Roma, che si svolse dal 3 al 9 maggio 1938, ebbe un’influenza notevole: non perché i tedeschi imponessero tale scelta all’alleato italiano, «ma perché quello era per Mussolini il momento di imboccare a bandiere spiegate la strada dell’antisemitismo di Stato» (5).Quale fu l’atteggiamento della Santa Sede e del mondo cattolico davanti a tali dichiarazioni del regime in materia razziale? Come vedremo tra breve, almeno in un primo momento, esso non fu perfettamente unitario, come era accaduto su altre importanti questioni, come, ad esempio, quando Si trattò di difendere i movimenti di Azione Cattolica contro le interferenze del regime e la violenza squadrista. Infatti, mentre Pio XI assunse una posizione di critica aperta nei confronti della nuova politica razziale inaugurata dal regime (posizione che imbarazzò alcuni prelati vicini ai circoli governativi) , gli organi centrali della Chiesa e la stampa cattolica ufficiale assunsero posizioni, per così dire, dialoganti e in ogni caso, almeno per il momento, interlocutorie.Nei primi tempi il Manifesto della razza fu accolto dalla stampa cattolica vicina alla Santa Sede in modo non ostile: si cercò di comprendere le «ragioni» dell’autorità governativa, che sembravano fondate su dati di carattere scientifico, quindi moralmente neutri e in ogni caso verificabili, e le si interpretò più secondo i desideri, la cultura o le preferenze dell’autorità ecclesiastica che secondo lo spirito discriminatorio che sottendeva lo «studio» preparato dagli scienziati fascisti. Si disse che il «razzismo» italiano era sostanzialmente diverso da quello tedesco: questo — a differenza del primo che si riteneva basato su solidi princìpi di carattere eugenetico orientati al miglioramento della razza latina — si presentava come intrinsecamente pagano e idolatrico, poiché fondato sul culto sacrale del sangue e sulla superiorità della razza ariana su tutte le altre. Si disse che il Manifesto riguardava soltanto questioni di carattere biologico e che quindi non toccava la dimensione religiosa o morale, la quale rientrava nella competenza della sola autorità ecclesiastica. Alcuni sottolinearono la distinzione tra «razzismo» vero e proprio, condannato dal recente magistero della Chiesa (come, ad esempio, dall’enciclica Mit brennender Sorge del 1937), e «politica razziale» volta al miglioramento della razza umana. Questa poteva anche essere accettata o compresa dall’autorità ecclesiastica, ma soltanto nella misura in cui non entrasse in conflitto con la sana dottrina cattolica e non si tramutasse poi, per necessità di carattere politico, in atti concreti di persecuzione e di violenza nei confronti di una determinata razza umana considerata inferiore o «differente».La Civiltà Cattolica, commentando il manifesto degli scienziati, scriveva: «Chi ha presenti le teorie del razzismo tedesco, rileverà subito la notevole divergenza di queste proposte da quelle del gruppo degli studiosi fascisti italiani. Questo confermerebbe che il fascismo italiano non vuole confondersi con il nazismo o razzismo tedesco intrinsecamente ed esplicitamente materialistico e anticristiano» . C’era nella rivista romana del gesuiti, che alcuni anni prima aveva combattuto il «giudaismo massonico e rivoluzionario» , in particolare da parte di alcuni padri la tendenza ad armonizzare i princìpi razziali fissati nel manifesto con la dottrina sociale cattolica. In un primo momento addirittura sembrava che il regime in tale materia avesse imboccato la strada di un «sano proporzionalismo discriminatorio» (ad esso si ispirava, infatti, l’informativa diplomatica n. 18 del 5 agosto 1938) tanto caro ai cattolici, poiché, in armonia con i princìpi della giustizia distributiva, «permetteva di dare a ciascuno il suo». Tale principio consisteva nell’applicare il principio proporzionale, misurato sulla consistenza numerica del gruppo razziale, circa la sua presenza nella vita economica e sociale del Paese; tale criterio era stato utilizzato, con il plauso della Civiltà Cattolica, in Ungheria nei confronti degli ebrei. Applicando tale criterio, commentava il p. Barbera, si garantisce «la difesa della nazione, contro il pericolo presente di una più numerosa invasione giudaica dalla Germania, dall’Austria e dalla Romania, e contro il liberalismo favoreggiatore del giudaismo e del suo nefasto predominio, senza persecuzioni, ma con mezzi energici ed efficaci» (6).Sulle questioni sollevate dal Manifesto della razza intervenne anche il giornale cattolico di Friburgo La liberté, con un articolo che in realtà era stato scritto per L’Osservatore Romano, ma che per ragioni prudenziali fu fatto pubblicare altrove. «Ora — si sottolineava con tono preoccupato — se i punti fissati dal gruppo degli studiosi fascisti in Italia si differenziano dalle teorie tedesche; se questa diversità fu rilevata anche in campo cattolico in Italia, come da quello razzista in Germania, tuttavia in Germania si salutarono come un incontro sullo stesso cammino quelle dichiarazioni del ministro Starace, segretario del partito, e quelle amplificazioni dei giornali, che scendevano per la prima volta in Italia dal “concetto di razza”, comunque inteso, enunciato e applicato, alla “pratica razzistica”: cioè dalla “difesa della razza” al “razzismo”» (7). Tale articolo ê molto importante perché mette l’accento — forse seguendo i suggerimenti dello stesso Pontefice — sui rischi a cui il regime si esponeva insistendo sulla politica razziale appena intrapresa: tanto più che molti gerarchi fascisti, come, ad esempio, Alfieri, Farinacci e altri, interessati a una stretta alleanza politica con la Germania nazista, avrebbero fatto di tutto per estendere all’Italia i princìpi del razzismo tedesco.A differenza della stampa cattolica e di buona parte della Gerarchia — interessata a non scontrarsi con Mussolini con il quale quasi dieci anni prima si era sottoscritto un Concordato e a non estendere le occasioni di conflitto con il regime, oltre quelle già esistenti sull’Azione Cattolica e in particolare sui movimenti giovanili ad essa collegati — Pio XI giudicava il Manifesto e tutte le iniziative che il Governo stava organizzando per la tutela della razza in modo piuttosto severo. Il Papa disse parole dure nel confronti della politica razziale inaugurata dal regime, mettendo in guardia dall’imitare su tale materia l’indirizzo tedesco, considerato contrario alla dottrina cristiana, al diritto naturale e ad ogni elementare senso di umanità. Il cosiddetto «nazionalismo esasperato» e ogni forma di razzismo che mettesse in discussione la dottrina dell’originaria unità (e dignità) del genere umano erano da lui considerati come eresie da condannare e da combattere con le armi della testimonianza della verità e della vigilanza cristiana.Il giorno stesso in cui veniva pubblicato il Manifesto della razza, il Papa, ricevendo in udienza le suore del Cenacolo, le fece partecipi di ciò che in quel momento angustiava il suo cuore di Padre, vale a dire le idee che venivano dappertutto affermate e diffuse in materia di nazionalismo estremo e di razzismo: «Si tratta ormai — disse il Papa — di una vera e propria apostasia. Non è soltanto l’una o l’altra idea errata: è tutto lo spirito della dottrina che è contrario alla fede di Cristo». Una settimana dopo, il 21 luglio, ricevendo in udienza 150 assistenti ecclesiastici dei giovani dell’Azione Cattolica, ritornava sullo stesso argomento: «Cattolico — disse il Papa — vuol dire universale, non razzistico, nazionalistico, separatistico» . Queste ideologie non soltanto non sono cristiane, ma finiscono «con il non essere neppure umane» (8). Per Pio XI quello del razzismo «era il tema più scottante del momento» (9). Da qualche tempo esso teneva il Papa in uno stato di agitazione e di angustia spirituale: tale tema «girava e rigirava nella sua mente» (10), è detto in una lettera del p. J. Lafarge, gesuita statunitense, il quale il 22 giugno era stato incaricato da Pio XI in persona di scrivere un’enciclica contro il razzismo (Humani generis unitas). Com’è noto, essa non vide mai la luce, ma rimase allo stato di bozza, perché lo scritto fu ritenuto dal Generale dei gesuiti e da altri suoi collaboratori non conforme alla «mente del Papa», e la malattia e la successiva morte del Papa impedirono che l’enciclica fosse corretta, completata e pubblicata. Ricordiamo che, in un breve capitolo della bozza, si condannava esplicitamente l’antisemitismo.Un dispaccio del conte Pignatti dell’ambasciata d’Italia del 20 luglio 1938 ci informa sulla mente del Papa riguardo al manifesto sulla razza degli studiosi fascisti; in esso ê detto: «Il Papa medita le contromisure da adottare dinnanzi alla campagna anti-israelitica progettata dall’Italia e che verrà condotta in base ai principi di purezza di razza, redatti dai professori universitari italiani» (11). Da tale doento risulta che Pio XI, prima ancora che Mussolini specificasse la direzione sostanzialmente antisemita della nuova politica razziale, era praticamente certo che tale indirizzo si sarebbe tradotto in provvedimenti discriminatori molto duri nei confronti degli ebrei italiani. Questo spiega perché il Papa, una settimana dopo, nel celebre discorso agli studenti di Propaganda Fide, attaccò con forza l’indirizzo filo-tedesco adottato dal regime in materia razziale, mettendo in imbarazzo Mussolini, che reagì con forza alle dure parole del Papa, minacciando la rottura. Intanto il 25 luglio un comunicato del Partito Nazionale Fascista, per far tacere alcuni sospetti sollevati negli ambienti internazionali (e non soltanto) sull’autorità scientifica degli estensori del Manifesto, rendeva noto i nomi di coloro che lo avevano redatto e di quelli che vi avevano aderito, e dichiarava che esso era stato preparato sotto l’egida del Ministero della Cultura Popolare (12). Pio XI e la lotta contro il razzismoPio XI il 28 luglio 1938, ricevendo in udienza gli studenti del collegio urbaniano di Propaganda Fide, tenne, come si è detto, un importante discorso sul tema del razzismo. «Egli — è scritto in una Nota della Segreteria di Stato — precisava alcuni punti di dottrina cattolica, confutava alcune affermazioni razziste; spiegava in che senso si poteva parlare di razze diverse e accennava alle conseguenze dolorose a cui avrebbe portato la politica razzistica, praticata su larga scala e non intesa soltanto a salvaguardare gli interessi imperiali evitando pericolosi incroci e imbastardimenti» (13), e soprattutto si interrogava «come mai l’Italia abbia avuto bisogno di imitare la Germania» in materia di razzismo. Tale frase indispettì moltissimo Mussolini, che riteneva di non dovere nulla al collega tedesco in materia di politica razziale come anche in altre questioni. Egli, inoltre, chiese al ministro degli Esteri italiano, conte G. Ciano, di convocare immediatamente il Nunzio Apostolico per esprimergli la disapprovazione del capo del Governo nei confronti del recente discorso del Papa, poiché ritenuto lesivo degli interessi politici nazionali e internazionali dell’Italia. Il giorno successivo Mussolini, in un incontro con un gruppo di segretari federali del fascismo a Forlì, rispondendo indirettamente al Papa, disse: «Sappiate, ed ognuno sappia, che anche nella questione della razza noi tireremo diritti. Dire che il fascismo ha imitato qualcuno e qualche cosa è semplicemente assurdo».Tale scambio di battute tra il Papa e il Duce, in un momento in cui i contrasti tra regime e Gerarchia ecclesiastica sulla questione dell’Azione Cattolica si andavano acuendo, creò una certa preoccupazione tra i vescovi, interessati a mantenere «controllati» i rapporti tra le due istituzioni. Per tale motivo essi cercarono di interpretare in senso non contrario alla propaganda del regime le parole del Papa, cercando di armonizzare il punto di vista fascista sul problema della razza con quello cattolico. Emblematica, a questo riguardo, è la lettera indirizzata il 9 agosto 1938 dal vescovo di Cremona, mons. G. Cazzani, a Farinacci, a proposito del discorso del Papa del 28 luglio: «Il S. Padre — scriveva il vescovo al ras di Cremona — non parlava contro un razzismo fascista […], ma parendogli che una certa corrente di stampa fascista volesse promuovere e caldeggiare anche in Italia un razzismo alla hitleriana, ha voluto mettere l’avviso contro il pericolo di un tale razzismo, e perciò ha parlato di mutuazione dai tedeschi. Ma il S. Padre non ha condannato qualunque cura o difesa della razza […], ma ha dichiarato espressamente di riprovare quel razzismo esagerato e divisionista, che animato da un culto superbo ed egoistico della propria razza, e contrario alla legge della umana e cristiana fraternità tra i popoli» (14).Una relazione del Nunzio Apostolico, redatta il 2 agosto, ci informa dettagliatamente sull’incontro che egli ebbe il 30 luglio con il conte Ciano; di esso si conoscevano finora soltanto le «impressioni» riportate da quest’ultimo nel suo Diario (15). «Monsignore dove andiamo? — scriveva mons. Borgongini Duca —. Il Duce questa mattina mi ha chiamato irritatissimo per le parole pronunciate dal S. Padre agli alunni di Propaganda Fide; tanto irritato, che aveva già risposto pubblicamente e così dicendo mi mostrò il Giornale d’Italia e mi lesse la brevissima replica»; poi disse che il Duce era molto contrariato per l’accenno fatto dal Papa alle Cinque giornate di Milano, poiché esso «aveva una portata politica nei confronti dell’asse Roma-Berlino» . Dalla lunga relazione del Nunzio, inoltre, si ricavano alcuni elementi che ci aiutano a capire quale fosse l’indirizzo che il regime intendeva portare avanti in materia razziale e, soprattutto, cosa si chiedesse alla Chiesa e ai cattolici. Innanzitutto dalle parole del Ministro si ricava che il nuovo indirizzo altro non era, a suo modo di intendere, che la naturale prosecuzione della politica di difesa della razza, già iniziata un anno prima, da possibili imbastardimenti. Su tale materia egli sapeva di poter contare sulla comprensione della Gerarchia ecclesiastica. Subito dopo, però, il conte Ciano passò a trattare del punto più delicato concernente la questione razziale, quello cioè riguardante gli ebrei italiani, sapendo che su tale materia sarebbe stato più difficile trovare il sostegno convinto dell’autorità ecclesiastica e dei cattolici alla politica razziale governativa: a meno che questa non si indirizzasse secondo i princìpi della morale sociale cattolica: «A fianco della questione del neri — continuava il Ministro —, si dovrà trattare anche quella degli ebrei, per due ragioni: 1) perché essi sono espulsi da ogni parte, e non vogliamo che gli espulsi credano di poter venire in Italia come nella terra promessa; 2) perché è loro dottrina consacrata nel Talmud, che l’ebreo deve mischiarsi con le altre razze come l’olio con l’acqua, ossia rimanendo di sopra, cioè al potere. E noi vogliamo impedire che gli ebrei in Italia abbiano posti di comando» (16).Il conte Ciano trattò della questione degli ebrei in modo più che diplomatico, per non dire ambiguo, toccando soltanto tasti a cui la sensibilità cattolica di quel tempo, segnata da un marcato antigiudaismo, era molto sensibile, scivolando così sulle questioni più importanti e di sostanza, come, ad esempio, il contenuto concreto della disciplina discriminatoria che il Governo intendeva applicare agli ebrei. Il Nunzio capì immediatamente, nonostante la malcelata riservatezza del Ministro, che il Governo era intenzionato su tale materia a procedere con una certa durezza. «Circa gli ebrei — scriveva il Nunzio — mostravo la mia preoccupazione perché in Germania si seguitano a colpire come ebrei i convertiti battezzati, che perciò sono usciti dal loro popolo; in Italia invece, ove esiste il Concordato, non si sarebbe potuto impedire il matrimonio tra un ebreo convertito e un cattolico». Nella replica del Nunzio si coglie appieno l’intrinseca debolezza e inadeguatezza della posizione cattolica riguardo al problema degli ebrei: troppo forte e pesante era a quel tempo l’eredità di una lunga tradizione antigiudaica e a volte anche, negli anni più vicini, antisemita, perché tale materia fosse concepita e compresa alla luce di princìpi più generali, fondati sulla stessa dottrina del diritto naturale, o semplicemente su princìpi più autenticamente evangelici, in modo che la difesa della dignità della persona umana venisse affermata senza limitazioni o tentennamenti contro chi intendeva, sulla base di princìpi pseudoscientifici o apertamente razzistici, limitarne, o meglio annullarne, la dignità sul piano sia personale, sia pubblico.Pensiamo di non peccare di anacronismo, sottoponendo a giudizio storico tali eventi, anche perché molti interventi di Pio XI si mossero proprio in tale direzione: il fatto che il Papa dovesse intervenire in difesa della persona umana, anche fuori dell’ambito strettamente confessionale, era dottrina accettata, anche se ancora non pienamente compresa nelle sue implicazioni, a partire dal pontificato di Benedetto XV. In ogni caso, il Nunzio Apostolico, a quanto pare, in quel momento sembrava essere interessato più che alla sorte degli ebrei italiani in generale, a cui il conte Ciano faceva riferimento, al fatto che un’eventuale disciplina antiebraica non riguardasse gli ebrei convertiti al cattolicesimo o che questa costituisse un vulnus al Concordato. Alle parole del Nunzio il Ministro replicò che il razzismo italiano, come aveva proclamato il Duce, «non si ispira a quello tedesco, ma vuole semplicemente regolare, con opportune leggi, le relazioni tra bianchi e neri nel nuovo Impero, ed in questa occasione regolare la questione degli ebrei […]. Mi ha poi detto che l’Italia è cattolica, e se uno qui si azzardasse di dire [come era avvenuto in Germania] che Gesù Cristo è un bastardo, sarebbe punito come bestemmiatore» .La stampa governativa non fece nessun accenno al discorso del Papa del 28 luglio. Esso fu pubblicato soltanto da alcuni quotidiani cattolici. Il Governo, intenzionato a bloccare ogni possibile polemica su tale delicata materia, che avrebbe reso piü difficile l’accoglienza da parte dei cattolici della progettata legislazione antiebraica, inviò a tutti i prefetti due comunicazioni firmate dal ministro Alfieri (17). In questo modo il regime riuscì a imbavagliare la stampa cattolica, impedendole così di partecipare in modo libero al dibattito pubblico in materia razziale: coloro che non condividevano l’indirizzo dettato dal regime in tale materia da questo momento in poi dovettero tacere. La Segreteria di Stato, con una Nota di mons. G. B. Montini, l’8 agosto 1938 informò la delegazione apostolica negli Stati Uniti dei provvedimenti assunti dal Governo italiano contro la stampa cattolica, in modo che all’estero non si dicesse che la Santa Sede e la stampa cattolica tacevano sui provvedimenti liberticidi emessi contro gli ebrei per pusillanimità o per complicità con il regime. Le parole del Papa contro la propaganda razziale iniziata dal fascismo per preparare il terreno alle successive disposizioni discriminatorie, in particolare contro gli ebrei, furono riportate e commentate dalla stampa internazionale, soprattutto quella di lingua francese e inglese, in senso piuttosto positivo. Importanti associazioni ebraiche internazionali, inoltre, indirizzarono al Papa lettere di omaggio e di ringraziamento. L’Alliance Israélite universelle testimoniò a Pio XI la sua gratitudine «per l’ammirabile energia con la quale condannò, nell’udienza agli alunni del collegio di Propaganda Fide, le teorie razziste, come false, inumane, empie e gravide di conseguenze detestabili». Con gli stessi sentimenti di gratitudine si espressero l’Associazione ebraica dei Veterani di guerra degli Stati Uniti, nonché l’ambasciatore statunitense a Roma, W. Phillips, il quale informò il Papa sulla preoccupazione del presidente Roosevelt riguardo all’indirizzo politico intrapreso dal Governo italiano. In particolare l’ambasciatore fece presente alle autorità vaticane che il Governo degli Stati Uniti avrebbe molto gradito «un’ulteriore dichiarazione della Santa Sede riguardo alla questione ebraica in Italia» (18).In quel momento sia il Governo italiano, sia la Santa Sede non avevano alcun interesse a inasprire il conflitto: da ambedue le parti c’era la volontà di risolvere ogni questione, come era accaduto in passato, attraverso accordi soddisfacenti per ambedue le istituzioni in modo da poter festeggiare, il febbraio successivo, il decennale dei Patti Lateranensi in un clima di concordia e di collaborazione. Tale occasione, per il regime, sarebbe stata un’opportunità unica per mostrare agli aborriti Paesi democratici che in Italia Chiesa cattolica e Stato totalitario convivevano pacificamente. In tal modo, nonostante Mussolini fosse molto irritato per i continui interventi del Papa in materia di razzismo, diede disposizione ai suoi collaboratori di giungere a un accordo segreto con la Santa Sede sulle questioni più controverse del momento: così facendo, egli pensava di legare i cattolici al carro del fascismo e soprattutto di far tacere (o «imbavagliare» ) il Papa. L’accordo fu «contrattato» per parte vaticana dal p. P. Tacchi Venturi, fiduciario della Santa Sede presso il Duce, e fu sottoscritto il 16 agosto del 1938. Esso toccava tre questioni principali: quella concernente «il razzismo e l’ebraismo»; quella più «generale dell’Azione Cattolica»: a tale proposito veniva riconfermato l’accordo del 2 settembre 1931; infine, una questione di carattere locale, che riguardava la sostituzione del segretario del partito fascista di Bergamo che era entrato in conflitto con il vescovo di quella città. Per quanto riguarda il primo punto, che era il più delicato e controverso, l’accordo sembrava condividere il punto di vista cattolico in materia di razzismo e si muoveva secondo lo spirito dell’Informativa diplomatica n. 18 del 5 agosto 1938, che, come abbiamo visto, trovava consenzienti vasti settori del mondo cattolico e la stessa Gerarchia. In realtà, dall’accordo traspare una forte polemica contro la Chiesa e la volontà del regime di metterla a tacere su tale importante materia: «È intenzione del Governo che questo problema sia tranquillamente definito in sede scientifica e politica, senza aggravio dei gruppi allogeni, ma solo con la doverosa applicazione di onesti criteri discriminatori che lo Stato ritiene essere in diritto di stabilire e di seguire. Gli ebrei possono essere sicuri che non saranno sottoposti a trattamento peggiore di quello usato loro per secoli e secoli dai Papi che li ospitarono [...]. Desiderio del Capo del Governo è che la stampa cattolica, i predicatori e i conferenzieri si astengano dal trattare in pubblico, il problema razzista» (19).Mentre la Curia e la diplomazia vaticana lavorarono senza sosta per un accomodamento con il regime mussoliniano, in modo da contenere entro limiti accettabili la programmata legislazione antiebraica, così che questa non si discostasse troppo dai princìpi della morale cattolica e non violasse punti significativi degli Accordi del Laterano, Pio XI continuò la sua lotta solitaria contro «le ideologie totalitarie». Egli non sottopose a censura, come voleva Mussolini, il suo pensiero e continua sino alla fine dei suoi giorni a condannare le aberranti dottrine del «nazionalismo estremo» e soprattutto del cosiddetto «razzismo esagerato», che considerava un’eresia in quanto contraddiceva il fondamentale principio sull’originale uguaglianza tra gli esseri umani. Il suo intervento magisteriale più forte da questo punto di vista fu quello pronunciato all’indomani del primo provvedimento governativo antiebraico, cioè il 6 settembre 1938, a un gruppo di pellegrini belgi: con tono commosso, egli disse che l’antisemitismo è inammissibile e che spiritualmente siamo tutti semiti perché discendenza di Abramo, nostro padre nella fede. Era la prima volta che un Pontefice in modo chiaro ed esplicito condannava l’antisemitismo. Delle vicende che seguirono tale discorso e degli ulteriori provvedimenti antiebraici tratteremo prossimamente.Note(1) Archivio Segreto Vaticano – Affari Ecclesiastici Straordinari (ASV - AAEESS), Italia, 1.040, 720, 22.(2) La letteratura storica sulle leggi razziali in Italia è molto vasta; segnaliamo qui alcuni lavori che ci sembrano più significativi: R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1961; Id., Mussolini il Duce, vol. II, Torino, Einaudi, 1981; A. Martini, Studi sulla questione romana e sulla Conciliazione, Roma, Cinque Lune, 1963; G. Miccoli, «Questione ebraica e antisemitismo tra Otto e Novecento», in Storia d’Italia. Annali, vol. XI, Torino, Einaudi, 1997, 1.369-1.574; Id., I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Milano, Rizzoli, 2000; S. Zuccotti, L’Olocausto in Italia, Milano, Mondadori, 1988. M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi, 2000; Id., La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 2005; E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2003; A. Cavaglion – G. P. Romagnani, Le interdizioni del Duce. Le leggi razziali in Italia, Torino, Claudiana, 2002. Su Pio XI e il razzismo ricordiamo: E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un Papa, Torino, Einaudi, 2007; Y. Chiron, Pie XI, Paris, Perrin, 2004.(3) ASV - AAEESS, Italia, 1.054, 732, 11.(5) Cfr R. De Felice, Mussolini il Duce, cit., 498.(6) M. Barbera, «La questione dei giudei in Ungheria», in Civ. Catt. 1938 III 152.(7) La liberté, 6 agosto 1938.(8) «Cronaca contemporanea» , in Civ. Catt.1938 III 271.(9) C. Passeleq - B. Suchecky, L’enciclica nascosta di Pio XI. Un’occasione mancata dalla Chiesa nei confronti dell’antisemitismo, Milano, Corbaccio, 1997, 42.(10) Ivi, 47.(11) ASV - AAEESS, Italia, 1.054, 727, 42.(12) I firmatari più noti del Manifesto della razza erano due medici (S. Visco e N. Pende), un antropologo (L. Cipriani), uno zoologo (E. Zavattari), uno statistico (F. Savorgnan) e uno psichiatra (A. Donaggio); gli altri erano oscuri assistenti universitari, tra i quali ricordiamo G. Landra, M. Ricci e L. Businco. Pare che nessuno dei firmatari sia stato interpellato prima della pubblicazione del Manifesto. Soltanto due di essi però, successivamente, anche se in modo non troppo chiaro, protestarono per essere stati inclusi nella lista dei firmatari. Cfr R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1999; G. Israel - P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Milano, Comunità, 1998; M. Michaelis, Mussolini e la questione ebraica. Le relazioni italo-tedesche e la politica razziale in Italia, ivi, 1982.(13) ASV - AAEESS, 1.054, 738, 22.(14) Ivi, 730, 19.(15) Cfr G. Ciano, Diario: 1937-1938, Bologna, Cappelli, 1948, 216. Su tale materia cfr E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un papa, cit., 179 s.(16) ASV - AAEESS, Italia, 1.054, 728, 46.(17) La prima comunicazione, del .4 agosto, diceva: «Direttori dei periodici cattolici sono richiamati sulla perentoria necessità che ogni commento sul problema razzista sia contenuto entro 1imiti conformi alle direttive del Governo nazionale». La seconda, emanata due giorni dopo, affermava perentoriamente: «Invito disporre che quotidiani e periodici cattolici si astengano da ora in poi di pubblicare l’allocuzione pontificia del 28 luglio» (ivi, 728,55).(18) Ivi, 730, 46.(19) Ivi, 40.© Civiltà CattolicaSi ringrazia il Direttore GianPaolo Salvini S.I. per aver concesso la riproduzione dell’articolo.
Fonte: http://www.kattoliko.it/leggendanera/modules.php?name=News&file=article&sid=1989

domenica 28 dicembre 2008

Se in Israele anche chi è per la pace sostiene i raid.....


Israele: case distrutte da qassam dei terroristi palestinesi
Per gli israeliani, di destra o di sinistra, è chiaro che l'incessante martellamento di razzi contro la popolazione civile non può essere più tollerato. Non è questione di opinione politica, né prerogativa di Israele. E' solo che gli israeliani hanno impiegato molto, troppo tempo per arrivare a questa conclusione. Immaginate 12.000 missili che si abbattono su Milano, su Dallas, o su Liverpool. Gli italiani, gli americani o gli inglesi non resterebbero a lungo con le mani in mano. Certo, non tanto a lungo quanto ha fatto Israele. Ma nel caso di Israele si applicano sempre, stranamente, due pesi e due misure. Hamas può permettersi di puntare i suoi missili contro la popolazione civile, infischiandosene delle responsabilità , mentre una qualsiasi reazione israeliana, per quanto accuratamente siano stati scelti gli obiettivi strategici, viene subito bollata come crimine di guerra. E' impossibile vincere a questo gioco — fermare cioè il lancio dei razzi — se una parte rispetta le regole e l'altra no. E' triste che si sia giunti al punto in cui solo un raid massiccio può metter fine a queste aggressioni. Se la comunità internazionale, come pure Israele, avesse adottato misure più stringenti — un boicottaggio economico, la sospensione delle forniture di gas fino alla cessazione totale degli attacchi missilistici — si sarebbe potuto evitare l'intervento militare.
Ma se Hamas non si assume mai le proprie responsabilità, e se Israele deve farsi carico dell'incolumità dei cittadini di Gaza, mentre il governo di Gaza non se ne preoccupa minimamente, allora Hamas può permettersi il ruolo dell'aggressore che veste anche i panni della vittima. Israele si è ritirato da Gaza unilateralmente, riconoscendo che l'occupazione non poteva protrarsi all'infinito. Ma da allora Hamas non ha fatto altro che dimostrare a Israele che il ritiro è stato una pessima idea. E per tutta risposta lo Stato ebraico è diventato bersaglio dei missili palestinesi. Sotto queste circostanze, il raid israeliano contro Gaza non è soltanto giustificabile, ma addirittura necessario per tutti coloro che credono che occorra metter fine anche all'occupazione della Cisgiordania. Perché per fare il passo successivo Israele deve sapere con certezza che è possibile impedire le aggressioni missilistiche, che potrebbero colpire Tel Aviv e Gerusalemme in caso di ritiro da quella regione. Per questo motivo i sostenitori della pace sono anch'essi favorevoli al raid su Gaza. E hanno ragione sia sotto il profilo morale che da un punto di vista pragmatico. Tra non molto si leveranno da ogni parte del mondo grida di condanna contro Israele, ma fino a quel momento Israele deve dimostrare a Hamas che è pronto a pagare il prezzo, anche internazionale, per ristabilire un deterrente. Qualunque altra azione sarebbe una resa ai nemici della pace.
Gadi Taub

YID With LID
MUMBAI VICTIMS WERE SEXUALLY MUTILATED
Posted: 26 Dec 2008 09:46 PM CST
"Even the Rabbi and his wife at Nariman House were sexually assaulted and their genitalia mutilated" Remember, the Rabbi's wife was pregnant. WHY this was kept from the public? Who are they protecting and why? Hiding it pretending it didn't happen? Why? Who would shield is from the truth and cover up the heinous barbarity of our mortal enemies. When Eisenhower liberated the camps he demanded the horror be photographed and documented so that no one could ever say (like Ahmadinejad and all of Islam's dhimmi appeasers) - that it didn't happen. We know who the enemy is we need to be protected from those on our side that censor the truth thereby aiding and abetting the the enemy. It is grotesque that this was not front page news as soon as the bodies were discovered. Shame on Israel for keeping their executioners' secret. They will have to answer to a higher authority.I think it might have been easy to deny the evil of the Nazis and their barbarism before their inconceivable atrocities were exposed. They were a most advanced, "modern" country - lovers of art, music (Wagner!) culture and technologically, they were ahead of the curve. More information is slowly coming out about the pious Muslims that attacked Mumbai November 26th - Mumbai's 9/11 and their depravity is unfathomable. This is pure evil.UPDATE:
Terrorists sexually Humiliated guests before killing them Mumbai Mirror hat tip Drasty
Foreign nationals at the Taj were particular targets of barbaric terrorists who first forced some of the guests to strip, then killed the.
Disturbing photographs made available to this newspapers by police sources indicate that several of the guests at the Taj Mahal Hotel during the siege November 26 were sexually humiliated by the terrorists and then shot dead.Police sources confirm that even as the terrorists were engaged in a fierce combat with NSG commandos, they were humiliating their hostages before ending their terrifying ordeal. Foreign guests were their particular target. Eight of the 31 killed at the Taj were foreign nationals.Photographs taken by a police forensic team after the hotel was sanitised yield a gruesome picture of some of the guests in the nude. These bodies were found away from the hotel's swimming pool which makes it clear that they were not those guests who were taken hostage from the poolside. "Even the Rabbi and his wife at Nariman House were sexually assaulted and their genitalia mutilated," said a senior officer of the investigating team, not wishing to be quoted.Tell me again why we are not destroying these savages. Why, in G-d's name, why? (Source for the Above Atlas Shrugs)Read More about this story HERE

Traduzione dal Palestinian Media Watch: Hamas applica la legge islamica

Preso dal Palestinian Media Watch
Hamas applica la legge islamica(Shariah): Amputazioni delle mani,crocifissioni,frustate ed esecuzioni di Itamar Marcus e Barbara Crook
I membri del Consiglio Legislativo Palestinese di Hamas a Gaza hanno approvato un nuovo disegno di legge "per applicare le punizioni coraniche",tra le quali amputazioni delle mani,crocifissioni,punizioni corporali ed esecuzioni. Quelli che producono,bevono o vendono vino saranno puniti con 40 frustate e se bevono in pubblico verranno aggiunti tre mesi di prigione. Diverse leggi sono rivolte contro i rivali palestinesi di Hamas, tra cui una legge contro i negoziatori che non sono di Hamas che condannerà a morte chiunque "è stato messo a negoziare con un governo straniero su una questione palestinese e stia negoziando contro gli interessi palestinesi".Quello che segue è preso dal sito web di Al-Arabiya:
http://www.alarabiya.net/articles/2008/12/24/62699.html ( in arabo )
Titolo: Hamas approva una legge per punire con frustate, amputazione delle mani, crocifissioni e pene di morte -per applicare la legge islamica(Shariah)
I membri di Hamas del Consiglio Legislativo Palestinese hanno approvato in una riunione a Gaza una nuova proposta di legge che è stata presentata da Hamas(che ha la maggioranza nel Consiglio Legislativo), il cui scopo è quello "di attuare le punizioni coraniche". Il quotidiano Al Hayat di Londra l'ha riferito il 24 Dicembre 2008 e ha detto che questo non ha precedenti, oltre ad aver scatenato critiche dalle organizzazioni per i diritti umani che operano nella Striscia di Gaza, soprattutto perchè questa legge prevede frustate, amputazioni delle mani, crocifissioni ed esecuzioni...La legge è suddivisa in leggi "primarie e secondarie". Le leggi primarie includono: "Leggi coraniche, vendette di sangue, frustate, crocifissioni ed esecuzioni"...Il testo sottolinea "Queste punizioni non saranno graziate o perdonate... tranne se perdonate dalla vittima stessa"Nella sezione 59 della legge si stabilisce che "la pena di morte sarà applicata su qualunque palestinese che abbia commesso una di queste cose: Alzato un'arma contro la Palestina per difendere il nemico durante la guerra, è stato nominato a negoziare con un governo straniero su una questione palestinese e stia negoziando contro gli interessi palestinesi, ha compiuto un atto ostile contro un governo straniero che possa danneggiare la Palestina in guerra o indebolire le relazioni politiche, ha informato o aiutato dei soldati ad entrare in questo esercito, indebolendo lo spirito e la forza della resistenza del popolo, oppure ha spiato contro la Palestina, specialmente durante la guerra".La punizione delle frustate è presente in molti punti della legge. La sezione 84 stabilisce che: "Chiunque beva,possieda o produca vino è punito con 40 frustate se è Musulmano, e chiunque beva vino, o danneggi un'altra persona(con il vino), o causa problemi in un luogo pubblico, o beva in un luogo pubblico sarà punito con un numero non inferiore a 40 frustate ed un periodo di carcere non inferiore a 3 mesi".
Al-Arabiya, 24 Dicembre 2008
Per contattare il Palestinian Media Watch(in arabo,in ebraico o in inglese):
Telefono: +97226254140Fax: +97226242803

Mai più esitazioni contro il nemico

domenica 28 dicembre 2008, 08:00
"Mai più esitazioni contro il nemico" Gerusalemme dice basta al terrore
di Fiamma Nirenstein

L’attacco di Israele a Hamas è stato duro, deciso, tutte le sue strutture sono state prese di mira; senza più esitazioni Hamas è stata trattata come un nemico vero, pericoloso, strategico, e non come talvolta si fantastica in Europa, un’organizzazione estremista ma in fondo periferica. Questo è quanto emerge dai fatti di ieri se cerchiamo di capire contro chi e che cosa Israele si è mossa, senza la consueta retorica dell’occupazione, dato che Gaza non è più occupata dall’agosto del 2005.
Siamo stati testimoni di tutta la storia di Hamas. C’eravamo, quando dall’87 il movimento, costola della Fratellanza Islamica comandata dallo sceicco Ahmad Yassin, si dette una carta costitutiva che prometteva morte ai cristiani e agli ebrei. E anche mentre cresceva prendendo sempre la strada della violenza. E quando nel ’94 innovò la guerra contro Israele con l’uso massiccio del terrorismo suicida; quando Yassin chiese pubblicamente a uomini e donne di Gaza di uccidere gli ebrei con le cinture esplosive, ed essi seminarono distruzione in misura ancora sconosciuta. Quando nel ’96 stabilì la base di Khaled Masha’al a Damasco così da costruire l’alleanza strategica che oggi dona a Hamas molto denaro e armi iraniane e il ruolo di protagonista nella jihad mondiale. C’eravamo quando Hamas si è opposta a ogni compromesso con Israele, compresi gli accordi di Oslo; quando ha sottolineato in rosso sangue la politica di Arafat rendendo la jihad e il terrore contro civili innocenti la parte più attiva di tutta la politica palestinese. Quando ha cominciato a costruire un vero esercito devoto alla distruzione di Israele, allenato e armato da hezbollah e iraniani.
E nessuno può dimenticare quando nel 2005 Sharon sgomberò Gaza e la consegnò ai palestinesi sperando che ne facessero un inizio di Stato indipendente e una Singapore del Medio Oriente, ed essi fecero una macelleria dei loro fratelli di Fatah e poi una rampa di lancio per i missili Kassam. Abbiamo presente, checché ne dicano oggi, le opinioni dei moderati, a partire da Abu Mazen per continuare con Egitto e Giordania, su Hamas come nemico mortale. E oggi vediamo con sgomento il rapimento di Gilad Shalit, uno dei più crudeli che si siano mai visti, senza una notizia, una foto, una visita della Croce Rossa per quasi tre anni. Nelle settimane scorse, mentre aumentava la pioggia dei missili su Israele, fino ad arrivare ai 90 di mercoledì scorso, si moltiplicavano le notizie sulla crescente forza militare di Hamas.
Israele ha chiesto in tutti i modi a questo autentico Hamastan indipendente, di smettere di bombardare i suoi cittadini. Ma Hamas aveva già annunciato una settimana prima di non voler rinnovare la thadia, la tregua con Israele. Olmert appariva patetico quando pregava venerdì dalla tv Al Arabiya: «Non vogliamo sangue, non ci costringete ad attaccarvi, sarà molto dura». Lo sarà, perché Israele spara su Hamas e non su Gaza, e ci vorrà quel che ci vorrà per costringerlo, e questo è il suo scopo, ad accettare una thadia in cui è chiaro che non si spara e, forse, si discute del rilascio di Shalit.
Per ora sembra di capire che i 150 obiettivi colpiti ieri abbiano tutti a che fare con la grande struttura di Hamas che occupa gran parte di Gaza City, ormai capitale organizzata dell’Hamastan. La centrale di polizia di Hamas conta, per esempio, molte vittime. L’alto numero dei morti è certo legato alla sorpresa e all’ora inconsueta, le 11,30, in cui gli israeliani hanno attaccato. Tutti i poliziotti, gli ufficiali, i funzionari erano probabilmente al lavoro. Per ora è difficile dire quanti innocenti siano stati coinvolti. Ma certo è dura per tutti, palestinesi e israeliani, da ieri sera, al sud, nei bunker e nei rifugi, mentre piovono i missili. La guerra finirà quando Israele penserà di aver messo Hamas in condizione di firmare una nuova thadia e forse quando i cittadini di Gaza capiranno che il loro governo non ha un interesse predominante al suo bene, ma a quello della Jihad islamica.
http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=317138

mercoledì 24 dicembre 2008

oh happy day

Le menoria di un terrorista islamico pentito

Sul FOGLIO di oggi, 24/12/2008, a pag.III dell'inserto, Giulio Meotti recensisce il libro di memorie di Tawfiq Hamid, il terrorista pentito che fu allievo di Zawahiri. Un documento istruttivo, una lettura allarmante.Sono nato al Cairo da una famiglia atea, mio padre faceva il medico ortopedico, mia madre era un'insegnante di francese molto laica". Tawfik Hamid, come il suo mentore Ayman al Zawahiri, braccio destro e ideologo di Osama bin Laden, proviene dalla borghesia colta e assimilata del Cairo. Finirà per militare nell'organizzazione responsabile di uno dei più sanguinosi attentati della storia egiziana. Cinquantotto turisti – svizzeri, giapponesi, inglesi e tedeschi – trucidati nel 1997 al tempio di Hatshepsut. Assassinati a pugnalate, falciati dai mitra nelle sale dei templi tebani, inseguiti tra le colonne di geroglifici e le tombe dei faraoni. Queste immagini scorrono mentre si è in ascolto della voce metallica di Tawfik Hamid.E' ciò che avrebbe potuto diventare se non si fosse fermato. Per questo la sua confessione, che ha consegnato al libro "Inside Jihad" è salutata dal Wall Street Journal come uno dei principali contraccolpi mediatici all'islamismo. "La mia non era una famiglia religiosa", racconta Hamid in questa intervista al Foglio da Washington, dove oggi vive. "All'età di quindici anni mi sono avvicinato all'islam. Nessuno mi aveva parlato di Dio prima di allora. La Jamaa Islamiya, un gruppo musulmano attivo nella mia scuola medica, si avvicinò sfruttando il mio desiderio di servire Dio. Ci mettevano in guardia sulle punizioni dopo la morte se non avessimo seguito letteralmente l'islam". Un giorno un uomo con gli occhiali spessi venne a tenere un discorso. "La retorica di Zawahiri ispirava la guerra contro gli `infedeli', i nemici di Allah. Lo chiamavamo con il titolo e il primo nome, Dottor Ayman. Mi metteva la mano sulla spalla: `Voi giovani siete la speranza del ritorno del califfato'. Provai un senso di gratitudine e di onore. Iniziai a farmi crescere la barba, smisi di ridere e scherzare. Adottai una postura seria, il mio odio per i non musulmani crebbe rapidamente e la dottrina jihadi divenne la mia seconda natura. Arrivai al punto di pianificare crimini, volevo partire per l'Afghanistan. Ero pronto a uccidere e a morire per Allah. A far saltare in aria chiese e moschee al Cairo. Sapevo di un piano di rapimento di un ufficiale della polizia per dargli fuoco da vivo. La brutalità non mi scalfiva. Divenni a mio agio con l'idea della morte, credevo che avrei sconfitto gli infedeli sulla terra e conquistato il paradiso". In questi anni abbiamo visto una massa informe di arabi che hanno lasciato affari, famiglia e affetti per farsi saltare in Iraq. Dalle biografie degli shahid trovati in un villaggio iracheno a Sinjar, si vede come la maggior parte dei kamikaze erano ex militari, poliziotti, insegnanti, commercianti, vigili del fuoco, impiegati e medici. "Conosco molto bene ciò che spinge un tunisino, un egiziano o un algerino a entrare in Iraq per farsi esplodere. Sono persone ingannate da insegnamenti violenti, se fossero nati in una cultura che parla di tolleranza e di amore sarebbero diventati pacifici. E' in corso una guerra ideologica. E' l'insegnamento islamista che infiltra la mente del musulmano. Un membro della Jamaa mi spiegò il concetto nell'islam di `al fikr kufr'. L'idea stessa del pensiero, fikr, ti renderebbe un infedele, kufr. I terroristi non fanno che personalizzare l'insegnamento mainstream dell'islam. Che dice: nella giurisprudenza islamica c'è scritto di uccidere e muovere guerra ai non musulmani, se non si convertono, devono pagare una umiliante tassa per le minoranze. Da un concetto violento si passa alla barbarie.Quando insegni a qualcuno a percuotere la moglie, a uccidere gli apostati e che le nazioni islamiche devono fare la guerra ai non musulmani, non puoi sorprenderti per quanto sta accadendo. Nel mondo islamico le donne sono lapidate a morte e sottoposte a clitoridectomia. Gli omosessuali penzolano dalle forche sotto gli occhi compiacenti dei promotori della shariah. Le madri palestinesi inculcano nei loro figli di tre anni l'ideale del martirio. Io avvertii l'immoralità dell'uccisione di innocenti e che una ideologia religiosa che fomenta la guerra agli infedeli va sconfitta. Ci troviamo di fronte alla mancanza di un'interpretazione dell'islam teologicamente rigorosa, tale da sfidare gli abusi interpretativi della shariah". Hamid si rivolge all'occidente: "Svegliatevi, prima che sia troppo tardi. L'islamismo è come un cancro, cresce lentamente e la gente non lo vede prima che sia troppo tardi. Io temo una guerra civile nel futuro dell'Europa. Non sono sorpreso dall'attentato a Mumbai, continuerà fintanto che il mondo libero non prenderà coscienza. Se fosse la povertà a causare Bin Laden o Zawahiri, perché gli attentatori dell'11 settembre provenivano dall'Arabia Saudita, la nazione islamica più ricca al mondo? Se fosse una mancanza di educazione, perché gli attentatori dell'11 settembre erano così colti? I musulmani che hanno colpito l'Inghilterra sono cresciuti in democrazia. Se tutto fosse legato a Israele, perché i musulmani si sarebbero dovuti sbranare in Algeria? Hanno ucciso 150 mila algerini. E migliaia di iracheni. Hanno mutilato i corpi dei musulmani e dato loro fuoco". Ciò che manca all'occidente è l'expertise culturale per vincere la guerra ideologica. "E' una nuova interpretazione dell'islam che può salvare il mondo dalla catastrofe. Dobbiamo parlare di ideologia, formazione, istruzione, di come il Corano possa essere interpretato in modo diverso, di come l'istruzione possa giocare un ruolo fondamentale nell'educazione dei ragazzini. Bisogna insegnare l'amore e contrastare le tattiche di lavaggio del cervello". Poi un bilancio sull'amministrazione Bush. "La strategia dopo l'11 settembre era giusta, l'idea di liberare e riformare il medio oriente. Ma era imperfetta e in un certo senso non strategica. Si deve sconfiggere l'islam radicale collaborando con i governi arabi, educando la popolazione giovanile agli ideali di libertà, modernità e diritti umani. Poi si deve implementare la democrazia. Se si inizia con l'urna, è facilissimo fallire. Come è successo con Hamas e l'Algeria. Se devi scegliere fra la casa reale saudita e i talebani, è con la prima che si deve stare. Se devi scegliere fra Mubarak e i Fratelli musulmani, è con il primo che si deve stare". Poi i suggerimenti al nuovo presidente. "Obama non ha scelta. Non basta l'attacco militare, pur necessario. Serve un approccio totale, militare, d'intelligence, psicologico, educativo, ideologico. E' così che l'islam radicale va sconfitto. Se il mondo libero prende coscienza, c'è da essere ottimisti. L'islamismo è indebolito, ma il sentimento violento nella umma è aumentato. Se il cancro diventa piccolo, non significa che non è più pericoloso. Il mondo civilizzato deve essere unito e coraggioso se vuole proteggere i giovani musulmani e il resto dell'umanità dalle conseguenze di questa ideologia". Hamid è stato invitato a parlare in Israele assieme allo storico Bernard Lewis. "Molti musulmani parlano degli ebrei come `scimmie e maiali'. Li considerano traditori del Profeta. In alcuni insegnamenti della letteratura islamica dei primi giorni, più che nel Corano, sta scritto di uccidere gli ebrei fino alla fine dei giorni. E' un dovere religioso. Usano però Israele per distogliere l'attenzione dalle atrocità commesse nel mondo islamico. E se domani il conflitto israelo-palestinese venisse risolto, questa gente troverebbe altre ragioni per uccidere. Zawahiri lo ha detto chiaramente: convertitevi all'islam o morirete".
http://www.informazionecorretta.com:80/main.php?mediaId=8&sez=120&id=27081

domenica 21 dicembre 2008

Garibaldi, assassino del Sud

Garibaldi, assassino del Sud
Un eroe può essere definito tale quando sacrifica la propria vita o la propria libertà al servizio degli altri, rischiando il più delle volte l’esistenza, per puro e superbo atto di altruismo. Da più di un secolo questo ruolo di eroico indomito, leggendario condottiero dell’Unità d’Italia, è riconosciuto al nizzardo Giuseppe Garibaldi. Per molti è “l’eroe dei due Mondi”, esempio di autorevole patriottismo, attuatore della rinascita e di una nuova stagione politico-economica in tutto lo stivale. Ma io, da buon siciliano e amante nel contempo della verità, condivido in pieno l'idea dei tanti cittadini del Sud, affranti da ciò che ha rappresentato davvero il sanguinario Garibaldi, nel Risorgimento e per i nostri ideali. Non mi sento traditore, comunque, di questa patria italica, perché la rispetto e l'amo con sensibilità, e con coraggio la servo. Tuttavia non posso sopportare gli atti di oscurantismo perpetrati ai danni del nostro patrimonio culturale, che in maniera subdola e meschina, hanno contribuito ad infangare la memoria di intere popolazioni del meridione. Se da una parte, il Presidente della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo, vorrebbe “abbattere i simboli di un'impostura chiamata Unità d'Italia”, dall’altra la medesima rivendicazione viene avanzata dai rappresentanti attivi del Carroccio, movimento per l’autonomia della Padania. Ciò che realmente accomuna la politica isolana a quella padana, è un sentimento di riscoperta di quella verità, chiusa dalla oclocrazia vecchia di ben due secoli. Se anche la Lega Nord, in quel della Pianura Padana (una delle zone che più ha tratto beneficio dall'Unità d'Italia), rivendica il privilegio di ignorare la storiografia italiana, perché noi siciliani, schiavizzati, non possiamo avvalerci del sacrosantissimo diritto di rivedere i libri, le piazze e le strade dedicate al sanguinario e mercenario "eroe"? Questo è quello che si sarà detto il Sindaco della città di Capo D’Orlando, Enzo Sindoni, che ai molti protezionisti delle pagine propinateci da centocinquant’anni a questa parte, è sembrato uno scellerato attivista nonsense. La verità è che ha rappresentato degnamente un senso di disgusto comune a tutti i cittadini meridionali, molti dei quali discendenti di contadini, armieri o semplici emigranti. La maggior di questi conosce la verità che in tanti disconoscono o non accettano; la visione di un Giuseppe Garibaldi antieroe, piuttosto che valoroso combattente per la causa di una Patria comune. Per capire in modo significativo quanto noi “revisionisti” e “restauratori della verità”, andiamo dicendo da sempre, bisogna incentrare tutto il succo del discorso sulla povertà. Nel 1861, l'erario del Regno delle Due Sicilie contava ben 443,2 milioni di lire; la Lombardia 8,1; il Ducato di Modena 0,4; Parma e Piacenza 1,2; Roma 35,3; Romagna-Marche e Umbria 55,3; l'Impero Sardopiemontese 27,0; Toscana 85,2 e Venezia 12,7 (questi dati provengono da Francesco Saverio Nitti, facoltà Scienze delle Finanze). Sebbene tutta la penisola conoscesse già Garibaldi nelle vesti di schiavista ( lo comprovano le sue scorribande in America Latina), viene comunque assoldato e condotto alla partenza con i suoi “Mille”. Partono da Quarto (Genova) imbarcati sui piroscafi “Piemonte” e “Lombardo”, alla volta del Regno delle Due Sicilie. A Garibaldi era stata segretamente versata dal governo inglese e dal Piemonte l'immensa somma di tre milioni in piastre d'oro (molti milioni di dollari odierni), che sarebbe servita soltanto a corrompere i dignitari borbonici e pagare il loro tradimento. Ma finita l’invasione, il Garibaldi acquistò con i soldi rubati dall'erario del Banco di Napoli, l’intera isola di Caprera., tanto che qualche anno più tardi egli si vide recapitare una lettera del direttore del suddetto istituto bancario, con la richiesta esplicita di restituzione della somma sottratta, volendo credere che questo fosse solo un prestito “mal chiesto”. Non restituì nulla. Il valoroso percepì anche un "contentino", versatogli in parte dal Re Vittorio Emanuele II e in parte dagli Inglesi, per un totale di 3 milioni. Entrata così a far parte del Regno d'Italia, la Sicilia, nel giro di pochi anni si vide spogliata dell'ingente patrimonio di quei Beni Ecclesiastici che fruttarono allo Stato 700 milioni del tempo, della riserva d'oro e d'argento del suo Banco di Sicilia, e vide portato il carico tributario a cinque volte piú del precedente. Come accertò Giustino Fortunato, mentre per l'anno 1858 esso era stato di sole lire 40.781.750 per l'anno 1891, le sue sette province registrano un carico di lire 187.854.490,35. Si inasprirono inoltre i pesi sui consumi, sugli affari, sulle dogane, le tasse di successione (che prima non esistevano), quelle del Registro (che erano state fisse), quelle di bollo, per cui nel 1877 queste tasse erano già pervenute a 7 milioni e nel 1889-90 avevano raggiunto i 20 milioni. La vendita del patrimonio dello Stato (ossia del demanio dell'ex Regno della Due Sicilie) impinguato dai beni dei soppressi Enti Religiosi e sommato alla vendita delle ferrovie, aveva fruttato allo Stato italiano oltre un miliardo, senza contare il capitale dei mobili, delle argenterie e tutta la rendita del debito pubblico, posseduta dalle Corporazioni religiose, che venne cancellata del tutto. E non erano "beni della Chiesa di Roma", ma frutto dell'accumulazione di famiglie siciliane investito sul "figlio prete". Questa è solo una minima parte di quei danni che l’invasione scellerata dei Savoia produsse in tutto il Sud d’Italia. Chi è di Bronte o è nato a Regalbuto, ben conosce le storie di due grandi stragi comandate da Nino Bixio, tirapiedi di Garibaldi. Le teste decapitate dai corpi mutilati, finite in gabbie per lo studio del noto medico Lombroso, con le sue stupide teorie del “Testa grossa? allora sei un assassino!” . La parola Mafia non esisteva; fu proprio dal brigantaggio dovuto alla guerra sardo piemontese che, incontrollati, diversi delinquenti si mischiarono alla povera gente, stanca delle false promesse delle camicie rosse. L'invasione di uno Stato in pace senza dichiarazione di guerra, agevolata da fenomeni di corruzione e dalla connivenza della Massoneria. Questo fu lo sbarco. L'epopea dei Mille è nota in tutto il mondo. Mille uomini, e per di più 'civili', che conquistano un regno vecchio di oltre settecento anni. Un regno ricco, che vantava la seconda marina del continente dopo quella inglese e primati in ogni settore.
Per questi motivi, il 24 ottobre 2007, diedi il via alla raccolta firme online http://www.firmiamo.it/viagaribaldidaipaesi con l'intento di raggiungere la quota sufficiente per divulgare, presso i comuni e la Regione, delle interpellanze. Via Giuseppe Garibaldi e i suoi dalle nostre piazze, strade e paesi...
Carmelo Parrinelli

http://carmeloparrinelli1981.spaces.live.com/blog/cns!CBD0D729133B4B6D!266.entry

giovedì 18 dicembre 2008


mercoledì 17 dicembre 2008

lunedì 15 dicembre 2008

Via di qui. Cattivi magistrati e cattivi giornalisti


di Carlo Vulpio

Sunday 14 December 2008


Avevo fatto una battuta. Avevo detto: i giornalisti, a differenza dei magistrati, non possono essere trasferiti. Avrei fatto meglio a stare zitto.

Da lì a poco sarei stato “trasferito” anch’io.

E’ stato la sera del 3 dicembre, dopo che sul mio giornale era uscito un mio servizio da Catanzaro sulle perquisizioni e i sequestri ordinati dalla procura di Salerno nei confronti di otto magistrati calabresi e di altri politici e imprenditori.

Come sempre, non solo durante questa inchiesta, ma perché questo è il mio modo di lavorare, avevo “fatto i nomi”.

E cioè, non avevo omesso di scrivere i nomi di chi compariva negli atti giudiziari (il decreto di perquisizione dei magistrati di Salerno, che trovate su questo blog in versione integrale) non più coperti da segreto istruttorio. Tutto qui. Nomi noti, per lo più.

Accompagnati però da qualche “new entry”: per esempio, Nicola Mancino, vicepresidente del Csm, Mario Delli Priscoli, procuratore generale della Corte di Cassazione, Simone Luerti, presidente dell’Associazione nazionale magistrati.

Con una telefonata, il giorno stesso dell’uscita del mio articolo, la sera del 3 dicembre appunto, invece di sostenermi nel continuare a lavorare sul “caso Catanzaro” (non chiamiamolo più “caso de Magistris”, per favore, altrimenti sembra che il problema sia l’ex pm calabrese e non ciò che stanno combinando a lui, a noi, alla giustizia e alla società italiana), invece di farmi continuare a lavorare – dicevo –, come sarebbe stato giusto e naturale, sono stato sollevato dall’incarico.

Esonerato. Rimosso. Congedato. Trasferito.

Con una telefonata, il mio direttore, Paolo Mieli, ha dichiarato concluso il mio viaggio fra Catanzaro e Salerno, Potenza e San Marino, Roma e Lamezia Terme.

Un viaggio cominciato il 27 febbraio 2007, quando scoppiò “Toghe Lucane” (la terza inchiesta di de Magistris, con “Poseidone” e “Why Not”). Un viaggio che mi fece subito capire che da quel momento in poi nulla sarebbe stato più come prima all’interno della magistratura e in Italia.

Tanto è vero che successivamente ho avvertito la necessità di scrivere un libro (“Roba Nostra”, Il Saggiatore), che, dicevo mentre lo consegnavo alle stampe, “è un libro al futuro”. Una battuta anche questa, certo, perché come si fa a prevedere il futuro?

In un libro, poi, che si occupa di incroci pericolosi tra politica, giustizia e affari sporchi…

Ma si vede che negli ultimi tempi le battute mi riescono piuttosto bene, visto che anche questa, come quella sul “trasferimento” dei giornalisti, si è avverata.Avevo detto – e lo racconto in “Roba Nostra” – che in Basilicata l’anno scorso è stato avviato un esperimento, che, se nessuno fosse intervenuto, sarebbe stato riprodotto da qualche altra parte in maniera più ampia e più disastrosa.

E’ accaduto che mentre la procura di Catanzaro (c’era ancora de Magistris) stava indagando su un bel numero di magistrati lucani, di Potenza e di Matera, la procura di Matera (gli indagati) si è messa a indagare sugli indagatori (de Magistris).

Come? Surrettiziamente. E cioè? Si è inventato il reato di “associazione a delinquere finalizzato alla diffamazione a mezzo stampa” e ha messo sotto controllo i telefoni di cinque giornalisti (me compreso) e un ufficiale dei carabinieri (quello delegato da de Magistris per le indagini sui magistrati lucani).

Così facendo, i magistrati indagati hanno potuto conoscere cosa si dicevano gli indagatori (de Magistris e l’ufficiale delegato a indagare).

Avvertivo: guardate che così va a finire male.

Chiedevo: caro Csm, caro Capo dello Stato, intervenite subito.

Niente. Nemmeno una parola, un singulto, un cenno. Nemmeno quando era chiaro a tutti che quei magistrati lucani, al di là di ogni altra considerazione, vedevano ormai compromessa la loro terzietà.

Un magistrato – si dice sempre, e a ragione –, come la moglie di Cesare, deve non soltanto “essere”, ma anche “apparire” imparziale, terzo, non sospettabile di alcunché.

Per i magistrati lucani, invece, non è così. Nonostante siano parti in causa, essi continuano a indagare sugli indagatori, chiedono e ottengono proroghe di indagini (siamo alla quarta) perché, dicono, il reato che si sono inventati, l’associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa, è complicatissimo. E rimangono al proprio posto nonostante le associazioni regionali degli avvocati ne chiedano il trasferimento, per consentire un funzionamento appena credibile della giustizia.

Niente. Si è lasciato incancrenire il problema ed ecco replicato l’esperimento a Catanzaro.

La “guerra” fra procure non è altro che la riproduzione di quel corto circuito messo in atto da indagati che indagano sui loro indagatori, affinché, rovesciato il tavolo e saltate per aria le carte, non si sappia più chi ha torto e chi ha ragione perché, appunto, “c’è la guerra”. E dopo la “guerra”, ecco la “tregua” o, se preferite, “l’armistizio” (così, banalmente ma non meno consapevolmente, tutti i giornali, salvo rarissime eccezioni di singoli commentatori).

Guerra e tregua. E’ questo il titolo dell’ultima, penosa sceneggiata italiana su una vicenda, scrivo in “Roba Nostra”, che è la “nuova Tangentopoli” italiana. Quando, sei mesi fa, è uscito il libro, qualcuno mi ha chiesto se non esagerassi.

Adesso, l’ex presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, dichiara: “Ciò che sta accadendo oggi è peggio di Tangentopoli”.

E Primo Greganti, uno che se ne intende, ammette anche lui, che “sì, oggi è peggio di Tangentopoli”.Infine, una curiosità, o una coincidenza, o un suggerimento per una puntata al gioco del Lotto, fate voi.

Mi hanno rimosso dal servizio che stavo seguendo a Catanzaro il 3 dicembre 2008.

Esattamente un anno prima, il 3 dicembre 2007, Letizia Vacca, membro del Csm, anticipava “urbi et orbi” la decisione che poi il Csm avrebbe preso su Clementina Forleo e Luigi de Magistris. “Sono due cattivi magistrati, due figure negative”, disse la Vacca.

E Forleo e de Magistris sono stati trasferiti.

Per me, più modestamente, è bastata una telefonata. Ma diceva più o meno la stessa cosa. Diceva che sono un cattivo giornalista.

Da:http://www.carlovulpio.it/

domenica 14 dicembre 2008

Laogai


domenica 14 dicembre 2008, 10:13
Le luci di Natale arrivano dai gulag cinesi
di Gian Micalessin

Lo chiamate albero di Natale, ma rischia di trasformarsi nell’albero della tortura e della schiavitù. A far la differenza bastano talvolta luci e addobbi. Soprattutto se sono «Made in China». Per capirlo basta visitare il museo del Laogai inaugurato a Washington da Harry Wu, il dissidente sopravvissuto a 17 anni di campi di lavoro e conosciuto come il Solgenitzin cinese. Nelle sale del museo dedicato ai gulag del comunismo di Pechino sono esposti bulbi fluorescenti, nastri argentati, lampadine colorate. Sono addobbi natalizi esattamente uguali a quelli accesi in questi giorni su migliaia di abeti. Arrivano dai campi di lavoro, da quei «laogai» dove dissidenti e prigionieri trasformati in schiavi di Stato garantiscono esportazioni a basso costo. «Gli italiani e gli europei non lo sanno, ma molti degli addobbi natalizi esportati da Pechino provengono dai campi di lavoro dove uomini e donne imprigionati soltanto per le loro idee o la loro religione vengono usati come schiavi di Stato - spiega Antonello Brandi direttore per l’Italia della Laogai Research Foundation, l’organizzazione fondata da Harry Wu che cataloga e denuncia i gulag cinesi.

Secondo i dati dell’associazione raccolti in un documento intitolato «Manuale dei Laogai» operano in Cina 1.422 campi di lavoro. In quel manuale la connessione tra i simboli del Natale e la sofferenza acquista spietata concretezza. Uno dei centri più famosi per la produzione di luci e addobbi natalizi è la prigione di Fanjiatai nella città di Shayang, provincia di Hubei. Dentro quel gulag si producono i prodotti distribuiti sui mercati internazionali da alcune aziende situate nelle province di Zhejang, Jamgsu e Fujian. «Queste ultime forniscono solo il marchio - spiega Brandi - la mano d’opera a costo zero è tutta nel Laogai di Fanjiatai». In quella prigione-azienda sono detenuti, torturati e spesso uccisi centinaia di membri del Falung Gong il movimento religioso nel mirino della persecuzione cinese.
Jennifer Zheng, una militante del Falung Gong arrestata per quattro volte e detenuta senza processo per oltre un anno, ha descritto nel libro «Testimone per la storia» la sadica alternanza di tortura e lavoro forzato praticata in quel centro di detenzione. «Lavoravamo sette giorni alla settimana, dalle cinque e mezzo di mattina fino alle due di pomeriggio, ma se c’era bisogno di aumentare la produzione venivamo costretti a turni che arrivavano anche 15 ore. Chi smetteva di lavorare o si rifiutava di ammettere le proprie colpe subiva la pena del bastone elettrico. Sono stata torturata fino a quando ho perso conoscenza e costretta a imporre quello stesso supplizio ai miei compagni di detenzione. Quello secondo i responsabili della prigione era l’unico modo di dimostrare la mia redenzione». La tragedia dei Laogai emerge anche dal rapporto del «Comitato dell’Onu contro la tortura» pubblicato qualche settimana fa. Il rapporto denuncia «l’alto numero di morti e d’abusi durante la detenzione di individui mai giudicati da un tribunale e a cui non è riconosciuta alcuna possibilità di protestare per la propria prigionia». Oggi alcune di questi inferni del lavoro forzato esportano i loro prodotti anche in Italia. «Secondo le indagini della nostra fondazione - spiega Brandi - il centro di detenzione di Zhongba nella città di Qingzhen comprende un campo con almeno duemila prigionieri costretti a lavorare fino 16 ore al giorno e un marchio per la produzione di gemme di cristallo, lampadine e lanterne distribuite in Italia, Belgio, Francia e Stati Uniti con il marchio Zhuhai Chili Electronic.

Costano poco, ma dietro a quel marchio si nascondono esseri umani ridotti in schiavitù e, spesso, anche prodotti nocivi e pericolosi per chi li acquista».

http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=314212

mercoledì 3 dicembre 2008

SKY


Murdoch: Berlusconi restituisce a Veltroni la polpetta avvelenata
Scritto da Carlo Panella
martedì 02 dicembre 2008
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Volete capire alcune - tra le tante e insane - ragioni della rivolta del Pd contro la decisione di fare pagare a Sky - e a Mediaset - la stessa Iva che pagano tutti gli italiani.
Sapete chi trasmette in tutta Italia ''Youdem'' la televisione di Veltroni?
Sky.

Sapete chi trasmette in tutta Italia ''Red'' la televisione di D'Alema?
Sky.

Dunque, la follia di caricare a testa bassa per l'eventuale rincaro di 4 euro 4 al mese dell'Iva per la pay Tv ha ragioni molteplici, una più incredibile dell'altra (anche perché non si capisce perché Sky, come Mediaset, non possa tenere a proprio carico questo incremento, limando i propri ampi profitti, senza scaricarli sul consumatore) .
D'altronde, la furbata veltroniana ha offerto a Berlusconi l'occasione per restituire al mittente la polpetta avvelenata dichiarando: ''Se la sinistra chiede insistentemente, difendendo i ricchi, di dimezzare l'Iva per la pay Tv, per noi va bene, ma sappia che perderà la faccia perché aspetto di vedere cosa farà quando Tremonti spiegherà le azioni del suo agire''.
Inchiodatp nel suo demenziale ruolo di Robin Hood dei ricchi, Veltroni studia la contromossa.
Povera sinistra!

Carlo Panella
http://www.carlopanella.it/